La capitale del Cosacchistan

Oggi compare su tutti i giornali, ma la prima volta che ho sentito parlare di Astana, la capitale del Kazakistan è stato l’anno scorso.

Astana - Kazakistan
Astana – Kazakistan, da Wikipedia

Ero seduto su una panca del terminal E dell’aeroporto Šeremet’evo di Mosca (anche questo su tutti i giornali in questi giorni), nel corso di otto ore di layover in attesa che partisse il volo Mosca-Avana. Dopo aver fatto già la tratta Roma-Mosca.

Piccolo inciso: Aeroflot è sicuramente una delle migliori compagnie aeree del mondo, ha prezzi molto bassi e aeromobili (per le tratte lunghe) nuovi di pacca. Va molto bene quindi per i voli ad Est, infatti per il Giappone è praticamente l’unica alternativa possibile, meno bene se dovete andare a ovest. In ogni caso la rotta Roma-Mosca-Avana era di gran lunga la più economica di tutte (qualche centinaio di euro), solo che prevedeva non solo un’anda e rianda, ma anche una sosta a Mosca piuttosto lunga.

In ogni caso la zona di passaggio tra i terminal F ed E è quella più adatta per cercare di dormire. Infatti era pieno di gente sulle panche e per terra, compreso un nutrito numero di cinesi incredibilmente organizzati, che con coperte e cuscini avevano praticamente trasformato una parte di terminal in bed&breakfast.

In una foto, così

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Il layover è pesante…

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C’è da dire che l’aeroporto di Mosca, essendo un crocevia di popoli e nazioni di letteralmente mezzo mondo, è frequentato da gente di tutti i tipi. E quando dico tutti, intendo anche cose che non vi aspettate di vedere in un aeroporto ultramoderno, tipo la famiglia armena col mono-sopracciglio e le valigie fatte con cartoni legati con lo spago.

Il gate davanti alla panca era pieno di persone altrettanto singolari, etnia asiatica ma non completamente a mandorla, vestiti fin troppo casual e pochi bagagli.  L’imbarco iniziò (con mia gioia visto che un paio di pupetti erano particolarmente agitati) mentre  display sul gate diceva Almaty.

Uno dei punti di forza dell’aeroporto di Mosca è che offre WiFi gratuito e illimitato ovunque. Non potendo quindi continuare a riposare ho cercato dove stesse Almaty, scoprendo che era appunto la vecchia capitale del Kazakistan, sostituita di recente proprio da Astana.

Tra l’altro il nome Astana era sempre sul display, perché la compagnia aerea kazaka si chiama proprio Air Astana.

Tutto questo eccesso di nazionalismo, unito ad una evidente situazione non troppo felice dei passeggeri, già puzzava.

Un giro sui vari articoli di Wikipedia ha infatti confermato che anche se dopo l’indipendenza dall’URSS formalmente il Kazakistan è una Repubblica, dove però incidentalmente il presidente è sempre lo stesso. E vince con il 95,5% dei voti.

Le foto della capitale (il cui nome Astana  è stato scelto perché suonasse bene nella gran parte delle lingue mondiali), è poi un chiaro esempio di architettura di regime. Praticamente potete mettere come didascalia Pyongyang e avrete lo stesso effetto.

Le differenze con la Corea del Nord sono però un po’ più evidenti quando si va a leggere, nella voce di Wikipedia sul Kazakistan, il paragrafo Risorse. Lì viene indicato che il paese (che ricordiamo è il nono al mondo per grandezza) possiede “circa il 60% delle risorse minerarie dell’ex Unione Sovietica“.

Ecco perché, leggendo della vicenda italiana della signora Shalabayeva (e figlia), il quadro della situazione era da subito molto, molto chiaro.

Altro che dubbi degli editorialisti e le ipocrisie dei politici.

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Il trauma della curva sud

Non parlo volentieri di calcio.
Sia perché se ne parla fin troppo, sia perché anche essendo tifoso della Roma sono passato da abbonato in curva a abbonato a Sky a abbonato a nulla.
Disincantato e stanco di troppo casino, troppe strumentalizzazioni, troppo business.

Però questa volta penso ne valga la pena, parlare di calcio.

L’arrivo di Rudi Garcia sulla panchina della Roma è stato visto positivamente, in particolare per la sua fama di duro.

Questa fama è nata durante le sue esperienze precedenti (o meglio i suoi tentativi di esperienze).

In particolare ha la fama di uno che non guarda in faccia a nessuno e che, chiamato a guidare prima il Camerun poi il Togo, non ci mise molto a capire che il primo problema di squadre come quelle erano le primedonne.
Tentò subito quindi di silurare Eto’o  e Adebayor, dimostrando sicuramente molta lucidità e molto coraggio.

Non ci riuscì, naturalmente, e venne silurato lui. Lasciando quelle due squadre nel nulla che erano e che sono, e i due campioni eroi della patria.

Ora, l’idea di rimuovere i sepolcri imbiancati dalla squadra, sia per dare spazio a chi giustamente se lo merita, sia ad evitare che una stella così luminosa possa mettere in ombra tutti gli altri è senza dubbio molto coraggiosa, come detto, ma soprattutto lucida.

E proprio la lucidità serve a chi deve prendere in mano le redini della Roma, visto che una delle cause principali del blocco della squadra e del fallimento degli ultimi anni è appunto l’inamovibilità delle primedonne. Ovviamente parliamo di Totti e De Rossi.

La cosa paradossale è che la situazione a Roma è chiara a tutti. Sia tifosi che giornalisti che gli stessi addetti ai lavori sanno che il problema principale è quello, quindi non vedevano l’ora di accogliere un duro come allenatore.

Però… però.

Tutti contenti dell’arrivo di Garcia, tutti festeggianti, però a leggere i commenti sui social network, sui siti sportivi, alle radio, al bar e per strada il sentimento popolare è sempre quello, sempre lo stesso da anni, sempre uguale.

Sempre così:

Totti non si discute si ama

De Rossi non si tocca

Alla fine tutti sanno qual è il problema, ma tutti allo stesso tempo non vogliono che sia rimosso.

Ma perché? Qual è il motivo che alimenta questo pensiero collettivo?

Ho sempre avvertito la consapevolezza che questo modo di pensare ci sia sempre stato nei trenta e passa anni che seguo la Roma.

Sia nei tempi più bui che nei periodi di successo l’attaccamento morboso verso i giocatori più rappresentativi, verso i figli di Roma più importanti, verso “i miei gioielli” di gracchiana memoria, c’è sempre stato.

Non ho mai posto però particolare attenzione a questo comportamento fino a quando, qualche giorno fa, ho risentito in radio questa canzone, e ho capito.

Questo mondo coglione piange il campione quando non serve più.
Ci vorrebbe attenzione verso l’errore.
Oggi saresti qui.
Se ci fosse più amore per il campione, oggi saresti qui.

Questa canzone di Venditti, per chi non è romanista e per chi non conosce Venditti, è dedicata ad Agostino Di Bartolomei.

Ago
Agostino Di Bartolomei nella maglia Barilla, foto di Agocapitano.

Di Bartolomei, Ago per la curva, è stato forse il più grande capitano che la Roma abbia mai avuto.

Romano di Tor Marancia quindi figlio di quella Roma popolare del dopoguerra, cresce nelle giovanili della Roma fino ad arrivare a guidare, con la maglia numero 10, la squadra in Serie A nel periodo più importante della fine del secolo scorso. Dalle tre Coppe Italia, all’impresa dello Scudetto dell’83 che ha stravolto la città e riportato la Roma tra le grandi (e che, tra l’altro, è il motivo per cui sono tifoso romanista), fino al punto più basso, alla delusione più grande della storia della squadra: la finale di Coppa Campioni del 1984.

In sintesi Di Bartolomei ha guidato la squadra dal suo punto più alto (il primo scudetto del dopoguerra) a quello più basso possibile (una finale europea persa in casa).

Questo ha senza dubbio instaurato un legame incredibile con la tifoseria. Che vedeva in Ago proprio la guida di cui aveva bisogno, un romano, romanista, capitano della Roma sia nel bene che nel male. Sia nella rinascita che nella sconfitta più dura.

L’eroe perfetto.

Ma gli eroi a volte hanno una storia tragica, e quella di Di Bartolomei lo fu.

Dopo la sconfitta fu ceduto, giusto il tempo di vincere la Coppa Italia e andò via.

Venduto ad altre squadre con la sua curva che lo salutava così:

Striscione Di Bartolomei

Di Bartolomei continuò a giocare sempre bene, fino a portare la Salernitana in serie B dopo tanti anni. Ma ormai era stato relegato ai margini del mondo del calcio.

Tentò di fare l’opinionista, ma più che altro lavorò per trovare altri talenti, fondando una scuola calcio e scrivendo un manuale per allenare i giovani.

Ma era lontano dalla sua Roma e dalla sua curva, troppo lontano.

Il 30 maggio del 1994, proprio dieci anni dopo la sconfitta più grande, sua e di tutti i tifosi romanisti, Agostino Di Bartolomei si sveglia, prende la sua Smith&Wesson, e si spara al cuore.

Fu uno shock.

Ricordo vagamente i festeggiamenti dello scudetto, ero piccolo allora, ma ricordo molto bene la notizia delle morte di Ago. Ricordo la gente che piangeva, il senso di delusione collettiva, il lutto.

Non era solo lutto per la perdita di un “figlio” però.

La morte di Di Bartolomei fu per la coscienza collettiva della tifoseria romanista un trauma enorme. Fondamentalmente perché si resero conto di averlo abbandonato.

Si resero conto che la discesa verso la depressione, il senso di vuoto e la scelta di uccidersi cominciò proprio quando Ago fu costretto a lasciare Roma, la sua città e la sua squadra.

Mi sento chiuso in un buco.

Scrisse così Di Bartolomei nel suo biglietto di addio. Perso in un limbo di vuoto e inutilità e lontano dalla cosa che aveva amato di più.

Lontano dalla gente che aveva amato di più lui.

La morte di Ago è il trauma che ancora oggi spinge i tifosi della Roma a comportarsi così. A comprendere che per rinnovarsi e rinnovare è necessario mettere qualcuno in panchina, e far emergere menti e forze giovani, nuove. Idee nuove.

Poi però arriva il canto di Venditti, che è sempre stato grande interprete del sentimento popolare della curva e dei tifosi romanisti, arriva quella frase che riporta un orribile pensiero

Se ci fosse più amore per il campione, oggi saresti qui.

Se ci fosse stata attenzione per l’errore, Ago oggi sarebbe qui. Se non fosse stato dimenticato e chiuso in un buco, oggi Ago sarebbe qui.
Questo quindi non deve mai più succedere. Nessuno dei figli di Roma deve essere più tradito.

Sappiamo che sono il problema, ma Totti e De Rossi non si toccano.

Dagli errori si deve imparare sì, ma dai traumi di deve guarire. I tempi sono cambiati e ci sono tanti modi per non cadere nel tradimento e perdono.

La pistola dalla mano è stata cancellata tanto tempo fa, ora non serve più guardare al passato.

E io, da tifoso disincantato e stanco, spero che la guarigione arrivi il prima possibile.

Famo la startap!

Più o meno dall’ultima fase della sua vita, e particolarmente dalla sua sovraesposta morte, l’Italia si è riempita di gente che pensa di essere come Steve Jobs.

E nemmeno nella sua fase più importante di visionario innovatore, no, proprio nella sua interpretazione più semplice: l’imprenditore che ha un’idea, che nasce dal nulla. Si potrebbe anche parlare di self made man, ma il termine fu già ampiamente abusato nel nostro paese durante gli anni della Milano da bere, quindi è meglio restare focalizzati solo sull’idea.

Mitizzando, come spesso succede in Italia, le opere del fondatore della Apple, è scoppiata la mania delle startup.

Un sacco di gente, che è convinta di essere geniale come Steve ma solo nata nel paese sbagliato, ha iniziato a parlare di creatività, idee innovative. E, appunto, di fare una startup. Tutti ne parlano e tutti hanno un idea.

E tutti si lamentano che la loro idea non trova fondi.

Eh… ma se nascevo in America, lì sì che investono nelle grandi idee!

Tutte queste sono parole al vento, naturalmente.
Perché un paese come l’Italia che ha sempre visto male la figura dell’imprenditore, che pensa che le PMI siano una risorsa (invece è una iattura), che non fa nulla per incentivare l’impresa privata, aumentando il potere delle controllate pubbliche, che cultura imprenditoriale può generare?

Vi faccio un esempio concreto di quello che succede proprio negli USA, il paradiso delle startup.

Questo è uno screenshot di Inc.com, uno dei siti principali che raccontano il mondo del business a stelle e strisce. In particolare quello high tech, ma i suoi articoli sono molto generici e orientati al mondo degli affari a tutto campo.

INC. Startup

La prima voce del menu principale del sito è proprio Start-up.
Giustamente a Inc. sanno molto bene che l’inizio di tante cose, in particolare nel mondo tecnologico, è una piccola idea nata in una piccola società.

Ma la vedete qual è la prima voce del sottomenu? Scrivere un Business Plan.

Prima di qualsiasi altra cosa, prima addirittura del nome della startup. Perché senza avere un business plan non si va da nessuna parte.

Senza avere un business plan non troverete mai nessuno che vi darà una lira.

Qualche tempo fa (mi pare proprio nei giorni della morte di Jobs, probabilmente parlando del libro Se Steve Jobs fosse nato a Napoli), da Gianluca Nicoletti a Melog su Radio 24 discutevano diversi esperti del settore. Tra loro anche un italiano, che lavora come ventur capitalist a Londra in una società di angel investor, con particolare attenzione al mercato italiano.

Ecco, questa persona ha detto chiaro e tondo che gli arrivano tanti italiani a chiedere soldi. Magari anche con idee buone e interessanti, ma che non hanno un business plan concreto, e spesso non hanno nemmeno idea di cosa sia.

Come possono quindi queste persone pretendere che qualcuno gli dia soldi, se non gli spiegano prima come farà a riaverli indietro, e auspicabilmente a guadagnarci qualcosa?

Sì perché la rivelazione sorprendente non è che basta avere un’idea (di quelle ce ne sono in giro anche troppe), ma bisogna spiegare a che serve e come farla fruttare.
Perché il capitalismo (di questo stiamo parlando, visto che il paradiso degli startupper sono gli Stati Uniti), è un sistema che mira a fare soldi.

Quindi la vostra idea brillante è brillante sì, ma perché serve a far guadagnare. E se trovate uno che di mestiere finanzia le imprese, non sta facendo beneficienza, sta cercando una via per far fruttare i suoi soldi. E la via siete voi.

La colpa di questa situazione è sicuramente un sistema culturale che, come detto, tutto fa tranne che incentivare l’impresa privata (non mi dite delle società che si possono aprire con un euro, ve prego… è la prova che si lavora contro l’impresa non a favore).  Che non spiega come strutturare passi elementari ma fondamentali come il business plan, che non attiva percorsi di formazione e incubazione concreti, magari anche con fondi pubblici (e ci sono eccome…).

Però la colpa principale è sicuramente di chi ha l’arroganza di aver capito tutto, e che fa la povera vittima con l’idea geniale che nessuno capisce. Che “se fossi nato in USA…

Sarebbe uguale, gli avrebbero chiuso la porta in faccia lo stesso.

Vi do un bel consiglio, quando parlate con uno di questi grandi imprenditori in erba, incompresi e frustrati perché nessuno capisce il loro genio, fategli una semplice domanda: mi fai vedere il business plan?

Se vi guardano come se foste un alieno, andatevene e lasciateli a leggere Millionaire.

E a rodersi il fegato.

C’è del marcio su TripAdvisor

Non voglio entrare nella polemica tra gestori e TripAdvisor sulla bontà dei pareri espressi dagli utenti.

Lo uso praticamente sempre quando devo scegliere un posto dove andare e cerco di lasciare recensioni quanto più oneste e reali possibili.

So benissimo che ci sono recensioni negative esagerate, e positive comprate, ma basta leggerle attentamente tutte (cominciando da quelle negative) per farsi una buona idea del posto.

Non è quindi questo il punto. Ma dov’è il marcio allora?

Qui. Questa è la situazione della classifica dei ristoranti di Roma nel momento in cui esce il post.

TripAdvisor Classifica dei Ristoranti di Roma

Il primo ristorante è al quarto posto.

Non penso vada bene così. E i gestori hanno ragione, in questo caso la colpa è di chi classifica.

Chiamate la polizia! O i carabinieri? O i pompieri? O l’ambulanza?

Kabobo Picconatore

La terribile storia di Kabobo il picconatore folle, un personaggio così completo (nome incluso) che sembra uscito da un film horror estivo, ha scosso molte persone, e non sono ovviamente mancate le strumentalizzazioni politiche da tutte le parti né i soliti stracciamenti di vesti dei vari opinionisti televisivi.

Però quello che è e resta un gesto di un folle, e quindi inevitabile per definizione, che sia clandestino o milanese da sette generazioni, ha colpito per un particolare: la mancata segnalazione delle aggressioni. Che ha portato ad un ritardo nell’intervento delle forze dell’ordine, e quindi a ancora più tempo al picconatore per compiere la sua strage mattutina.

Questa cosa è stata analizzata molto bene in questo articolo del Corsera di Milano, dal titolo La paura che ci spinge a non chiamare il 112.

L’articolo ricorda come la follia di Kabobo sia stata segnalata alla polizia un’ora e mezza dopo l’inizio del killing spree.

Le prime tre vittime del folle non hanno infatti avvertito nessuno, se non i soccorsi medici:

Sono svenuto e quando ho ripreso conoscenza la strada era deserta», ha raccontato ieri dal citofono della sua abitazione, accanto alla moglie, dopo essere stato dimesso dall’ospedale. «Ho barcollato fino a casa, ho impiegato tempo». Aggiunge la donna: «Non abbiamo neppure realizzato di cosa si trattasse, per questo non abbiamo pensato di avvertire i carabinieri, ma solo l’ambulanza. In ospedale, quando sono arrivati altri feriti, abbiamo capito».

L’articolo cita anche gli altri aggrediti, dicendo cosa hanno (o meglio non hanno) fatto dopo l’aggressione, prima comunque di andare in ospedale, dove è partito poi l’allarme definitivo.

Il giornalista, cercando di capire il perché di questo comportamento intervista anche i soliti espertoni, sociologhi (ahahhaha) e psic* sempre pronti a commentare tutto, che sintetizzano più o meno così:

Facciamo parte di una società individualista con uno scarso senso della cosa pubblica, come conferma l’episodio di sabato mattina.

O con idiozie ancora peggiori:

La liquidità dei legami di oggi rende quasi impossibile identificarsi nel bene comune, nelle ragioni della collettività.

Ecco, queste sono tutte cazzate.

Il motivo principale, come viene riportato da diversi commentatori all’articolo (che non hanno perso tempo in facoltà inutili e quindi ragionano bene) è molto, molto più semplice.

In Italia non esiste un numero unico di emergenza.

Sì, perché l’Italia è il paese delle parrocchiette, degli orticelli e delle caste. Quindi ognuno deve avere un sistemino suo, un numerino suo a tre cifre, un suo corpo d’emergenza personale.

In altri paesi non esiste questo concetto. Negli Stati Uniti c’è solo il 911. Qualsiasi sia l’emergenza tu chiami loro e loro ti mandano quello che serve, ma tenendo traccia di tutto.

Sì perché in questi casi la velocità di diffusione e la condivisione dell’informazione è essenziale.

Se c’è un pazzo che prende a picconate tre persone e uno chiama il 118, uno il 113 e uno il 112, nessuno correlerà mai le cose. Ognuno penserà ad un caso isolato perché non è conoscenza degli altri tre casi.

Questo si riflette anche sulla popolazione e sulle azioni che i cittadini compiono. Perché se io ho tanti numeri per un’emergenza, quando sarò davvero in emergenza, magari non chiamerò proprio nessuno. Serve una strada da percorrere in momenti critici, non si deve avere scelta. Perché più c’è scelta più si aumenta l’entropia più si hanno comportamenti confusi e non adeguati ad una risposta rapida ed efficiente.

L’unificazione dei numeri di emergenza non è una cosa nuova ma, come tante cose italiche, è dimenticata, ma non da tutti.

Il caos in cui siamo è ben ricordato da 112 Italia, organizzazione che si rifà alla European Emergency Number Association e alla 112 Foundation, una ONG impegnata da anni per far sì che il 112 sia il numero unico di emergenza in tutta Europa. 

112StickerCardEN2

In Italia invece siamo messi così:

Difficile capirci qualcosa vero? Figuriamoci in emergenza.

112 Italia ha una bella pagina in cui descrive la situazione italiana, tra proposte, ipotesi, impegni e quant’altro, e un confronto con la situazione europea.
Tra l’altro proprio la situazione dell’Italia rispetto al resto dell’Europa ha spinto qualche anno fa la Commissione UE ad aprire una procedura di infrazione contro l’Italia, poi archiviata perché il Governo nel 2010 ci ha messo una pezza. Pezza inutile ovviamente, perché si tratta dell’ennesima sperimentazione che non avrà mai né fine né un qualunque risultato utile. Quindi presto temo che ne risentiremo parlare.

Queste che sembrano elucubrazioni esagerate non lo sono, perché corrette procedure e servizi servono a salvare delle vite.

I telefonini e smartphone che tutti abbiamo in tasca permettono di chiamare, anche se bloccati, due numeri: il 911 e il 112.

Quindi se vi serve un’ambulanza in Italia, non la potrete chiamare.

Altro che liquidità dei legami di oggi.