“La mia porta è aperta”

Ieri sera, nella nullità televisiva che circonda il concerto del Primo maggio, stavo guardando (per la gioia di chi era davanti alla TV con me) la prima puntata della miniserie Titanic – Nascita di una Leggenda.

Tra le varie stronzate trovate della sceneggiatura, c’è n’è stata una che mi ha colpito.

È una frase che dice Derek Jacobi interpretando Lord Pirrie, il presidente dei cantieri Harland&Wolff dove si sta costruendo il Titanic.

jacobi

Pirrie nella fiction è descritto come un padrone illuminato. Lui e la moglie si definiscono progressisti, liberali, e comunque molto attenti sia alle crescenti proteste delle maestranze, sia soprattutto all’inevitabilità del cambiamento dei tempi. Insomma, sembra quasi il ritratto di uno dei capitani coraggiosi che tanto sono piaciuti all’allora premier D’Alema e che tanto bene hanno fatto alle imprese italiane in via di privatizzazione.

Tornando alla miniserie, Pirrie è combattuto quando emergono le prime proteste sindacali, e critica fortemente i suoi colleghi industriali che reagiscono subito duramente imponendo una serrata. Loro sono proprio raffigurati come i classici padroni delle ferriere, disposti anche a far fallire tutto pur di non ascoltare quei miserabili degli operai.

Proprio quando gli operai della H&W (che tra l’altro è stata davvero in quel periodo difficile una delle aziende migliori dove lavorare) stanno per indire uno sciopero nel timore della serrata, Pirrie va a parlare con il capo sindacalista e gli dice una frase memorabile:

Io accetto il dialogo [con i sindacati]. A patto che rimanga costruttivo e portato avanti con metodi civili. Tutto quello che chiedo è che non mettiate in pericolo il lavoro qui con azioni violente e precipitose. Venite e parlate con me, la mia porta è aperta.

Ecco io ho lavorato in molte aziende diverse e con molti top manager diversi, anche espressione di linee ideologiche e/o politiche molto diverse.

E ho notato che sempre, ma dico proprio sempre, i peggiori sono quelli che dicono che la loro porta è aperta. Anche perché potrà essere vero, ma qualche metro prima della porta c’è un cancello ben chiuso e protetto.

Molto meglio i grugniti dei padroni delle ferriere.
Almeno quelli sono coerenti e non ti prendono per il culo.

Dentro le torri d’avorio

Riprendo l’argomento produttività (e leadership) che avevo iniziato qualche mese fa, parlando di uno dei problemi più importanti delle aziende complesse: la sindrome della torre d’avorio.

Con il crescere delle aziende, sia in quantità di dipendenti che di complessità dell’organizzazione, aumenta il rischio di formazione di silos (o regni, se le dimensioni lo consentono) molto verticali all’interno dell’azienda stessa.

E i responsabili a capo di quei silos si chiudano, insieme ai loro collaboratori, all’interno di alte torri d’avorio. Ignorando il contesto e arrivando all’ostilità in caso di forzata interazione con altri pari livello.

Questo succede molto spesso con il top management, ma in strutture particolarmente complesse succede anche con il middle management e con i reparti aziendali più orientati agli aspetti tecnici e tecnologici. Ed è, comprensibilmente, molto rischioso per l’azienda. Rischioso a tal punto da intaccare l’operatività, quindi il fatturato, quindi la stessa esistenza dell’organizzazione.

Il fenomeno è stato ed è ancora studiato da diversi analisti delle organizzazioni aziendali, e prende il nome appunto di sindrome della torre d’avorio. Questa sindrome può colpire le organizzazioni in due diverse modalità, verticalmente e orizzontalmente.

Isolamento verticale

L’isolamento verticale è quello tipico di chi occupa posizioni apicali.
I top manager hanno la tendenza a lavorare e dialogare con loro pari grado all’interno dell’organizzazione. Questo è perfettamente fisiologico visto che il loro è un ruolo chiave all’interno dell’azienda, e loro responsabilità è quella di definire visioni, strategie e linee operative. Tuttavia, con il passare del tempo, questa chiusura può rivelarsi dannosa, perché tende a focalizzarsi troppo sul dialogo con leader e manager piuttosto che sull’osservazione di dove realmente viene svolta la mission dell’azienda, cioè nel lavoro di tutti i giorni dei dipendenti sia internamente che esternamente nei rapporti con i clienti. E i clienti sono quelli che creano il fatturato dell’azienda.

In questo caso le decisioni prese dal top management perdono inevitabilmente di qualità e significato. Proprio perché non si tiene conto dei problemi “di basso livello” dell’azienda, che però sono quelli che hanno più impatto sull’operatività reale e sui rapporti con la clientela, non è possibile definire una strategia valida per l’organizzazione.

Questo tema è affronato molto puntualmente dal consulente su lavoro e leadership Rober Bacal sull’ottimo LeaderToday  e da un altro blog di due consulenti in incognito, purtroppo non più aggiornato ma sempre valido, Sith Sigma.

Isolamento orizzontale

L’isolamento orizzontale avviene quando un gruppo di tecnici, molto esperti su un particolare settore, si chiude nella propria torre con tutta la conoscenza posseduta. Questo crea molti problemi nella condivisione delle informazioni all’interno dell’organizzazione, rallentando i processi produttivi, rendendo più onerosi i progetti, creando dei gruppi di persone “privilegiate” e in ogni caso creando danno all’operatività dell’azienda.

L’esperto di knowledge management Keith De La Rue ha molto efficacemente rappresentato questa situazione in chiave favolistica, nel saggio The Ivory Tower – a Knowledge Management Fable (PDF). Il saggio è stato riportato anche riportato in una presentazione molto efficace qui su SlideShare.

In questo scenario chi possiede la conoscenza sono i tecnici, rappresentati come maghi. Loro sono chiusi nella loro torre d’avorio, dalla quale su richiesta del re (cioè il management) danno indicazioni al resto dell’azienda (rappresentata come i contadini) su come operare in certe condizioni o su come fare certe cose.

Solo che lo fanno con un linguaggio particolare, chiamato techknowspeak, incomprensibile a chiunque tranne che ai maghi stessi, e lo fanno senza mai uscire dalla torre e senza incontrare mai nessuno.

Succede quindi che i maghi e i contadini non si incontrano mai fisicamente, non riescono a comprendersi perché i maghi parlano un linguaggio incomprensibile, e le coltivazioni (cioè l’attività aziendale) vanno male perché nessuno sa esattamente come usare la conoscenza.

Questo scenario è forse ancora più pericoloso del precedente, perché nel caso di isolamento verticale il rischio è che l’azienda vada in una direzione non coerente con la propria attività, ma comunque può essere risolto con un’osservazione diretta. Nel caso di isolamento orizzontale il mancato flusso di conoscenza all’interno dell’azienda può far naufragare progetti anche molto importanti, creando un immediato pericolo per l’esistenza dell’azienda stessa.

Ma come si esce dalla torre, e magari la si butta giù una volta per tutte?

La strategia di uscita è di quelle che sembrano molto facili a dirsi, ma che sono in realtà molto faticose ad attuarsi.

I punti chiave per pianificare un’uscita dalla torre sono due: interazione e comunicazione.

Sia Bacal che Sith Sigma indicano come via d’uscita che il top management osservi il resto della propria azienda lavorare. Parlino (o meglio ascoltino, ma davvero, non per scena) con i dipendenti delle strutture operative, capiscano quali sono i problemi reali che l’organizzazione affronta tutti i giorni. In questo modo potranno

Ma dovranno farlo senza filtri, senza note o rapporti di mezza pagina scritti da altri.
Perché dice molto correttamente Sith Sigma:

Information filtering is a constant threat to top management, and sometimes the only way to really know what’s going on, is to get your hands dirty.

Per quanto riguarda i maghi, qui la questione si fa un po’ più complessa, la chiave qui è migliorare la comunicazione, condividere il sapere.

Curiosamente De La Rue manda in scena una quarta figura all’interno dell’allegoria, i knowms. Questa figura, simbolicamente identificata all’interno dei trovatori di corte, sono coloro che dovranno fare da tramite tra i maghi e i contadini. Diventare quindi un ponte della conoscenza tra chi la possiede e chi ha necessità di usarla, per mostrare a tutti che il vero potere è nel condividere la conoscenza, non nel rinchiuderla in una torre.

Marissa Mayer vuole i suoi dipendenti “fisicamente insieme”

Chi segue le notizie di tecnologia conoscerà sicuramente la storia di Marissa Mayer.

mmayer

Prima ingegnere donna di Google, assunta da Yahoo! come CEO mentre era incinta e quindi simbolo di una donna giovane, molto brava, che riesce a portare avanti una carriera luminosa con un forte desiderio di famiglia.

La Mayer era stata chiamata proprio per risollevare le sorti di quello che tanto tempo fa era uno dei principali motori di ricerca, e che ora è diventata un’azienda che non si sa bene cosa faccia.

Tra le varie modifiche fatte da quando lei è alla guida della società, l’ultima è quella che sicuramente ha scatenato più discussione e più eco, anche nella stampa generalista. Ovvero la decisione di eliminare il telelavoro.

Questa la nota che il capo del personale di Yahoo! ha inviato a tutti i dipendenti (pubblicata da AllThingsD):

To become the absolute best place to work, communication and collaboration will be important, so we need to be working side-by-side. That is why it is critical that we are all present in our offices. Some of the best decisions and insights come from hallway and cafeteria discussions, meeting new people, and impromptu team meetings. Speed and quality are often sacrificed when we work from home. We need to be one Yahoo!, and that starts with physically being together.

Beginning in June, we’re asking all employees with work-from-home arrangements to work in Yahoo! offices. If this impacts you, your management has already been in touch with next steps. And, for the rest of us who occasionally have to stay home for the cable guy, please use your best judgment in the spirit of collaboration. Being a Yahoo isn’t just about your day-to-day job, it is about the interactions and experiences that are only possible in our offices.

La notizia è rimbalzata ovunque e, come era prevedibile, scatenato molti commenti e molte polemiche. Soprattutto perché nel mondo delle aziende tecnologiche USA il telelavoro e la flessibilità sono sempre state uno dei punti forti della loro competitività, in particolare riguardo alla maggiore “rigidità” dei modelli lavorativi europei.

Tra i commenti più interessanti c’è senza dubbio quello di Richard Branson, capo della Virgin, Branson ha pubblicato un post dal titolo molto esplicativo Give people the freedom of where to work. In cui si dichiara molto perplesso per la scelta di Yahoo!, in particolare perché

If you provide the right technology to keep in touch, maintain regular communication and get the right balance between remote and office working, people will be motivated to work responsibly, quickly and with high quality.

Working life isn’t 9-5 any more. The world is connected. Companies that do not embrace this are missing a trick.

Ma i commenti ovviamente non finiscono qui. Anzi ampliano il discorso dalla scelta specifica di Yahoo! (che ha risposto alle polemiche con un deciso “questo è quello che serve a Yahoo! oggi”), parlando anche di cosa è esattamente il telelavoro, quali sono i suoi pro e i suoi contro.

In questo interessante articolo di Herb Greenberg su LinkedIn Today, dal titolo Working from Home: The Good, the Bad & the Ugly, tira un po’ le somme su cosa significa lavorare da casa.

La sintesi che fa Greenberg, giornalista di CNBC, è che i lati positivi sono sicuramente meno tempo perso (non bisogna perdere tempo a fare il pendolare), meno spese e una maggiore quiete nel proprio ufficio casalingo.

I lati negativi sono, comprensibilmente, che si lavora sempre. Perdendo infatti il dualismo casa-ufficio, si perde anche l’interruzione fisica di due fasi distinte della propria giornata. Inoltre, e questo il punto focale della scelta di Yahoo!, è che non c’è il confronto creativo, casuale, fisico, che succede in ogni ufficio, nei corridoi e alle macchinette del caffè. Si può infatti cadere in un isolamento e alienazione che può aiutare sì lavoratori molto concentrati, ma che forse a lungo andare potrebbe penalizzare l’azienda come un gruppo complesso.

In Italia siamo sempre qualche anno indietro agli USA su questi temi, ma ne stiamo parlando sempre di più, soprattutto su aziende non di proprietà USA.

Forse è il caso di sfruttare questo dibattito anche per analizzare fin da ora i lati positivi e negativi di questa modalità di lavorare, e cercare di strutturare un sistema che sia ottimale per i lavoratori e per l’azienda.

Ma quale meritocrazia volete?

In Italia si parla continuamente di meritocrazia.

Di come è bella quella dei paesi anglosassoni, di come funziona tutto bene quando c’è, di come dovremmo attivarla anche qui da noi, di come tutti sarebbero contenti perché le loro capacità sarebbero davvero valorizzate.

Ma siamo (o meglio siete) veramente sicuri che sia così?

Vorrei sfatare un falso mito che viene portato avanti da tempo:

in Italia la meritocrazia c’è.

Bisogna soltanto mettersi d’accordo sul metro per misurare il merito. Sì perché è facile dire che vanno avanti quelli bravi. Ma bravi a fare cosa?
In Italia vanno avanti quelli bravi, su questo non c’è dubbio, ma vanno avanti quelli bravi ad avere conoscenze, parentele, agganci. Quelli bravi a vendere, a vendersi e a comprare.

Vanno avanti gli amici di amici.

Quindi mi dispiace, ma un regime meritocratico c’è eccome. Non avete i meriti di cui sopra? Allora vuol dire che siete fuori, che non riuscite a competere, che verrete scavalcati da chi riesce meglio di voi. Meritocrazia piena insomma.

Ora ovviamente dite che questo sistema non va bene. Ma lo dite perché, secondo questo sistema, voi siete fuori.

Parliamo allora di quello che c’è nel mondo anglosassone.
Per lo meno nella maggioranza di quel mondo, perché non è che lì le conoscenze e gli amici non servano, ma almeno servono in maniera minoritaria.

Ma siete sicuri di volere quel sistema? Lo conoscete bene o ne avete solo una visione mitologica?

Un’ottima descrizione di quel sistema ce la da il blog di italiansinfuga, con l’articolo La cruda realtà della meritocrazia.

Quindi cos’è questa cruda realtà? Cos’è questa brutalità di cui parla chi conosce molto bene quel sistema?
Vediamo qualche esempio:

Meritocrazia vuol dire che il 110 e lode può aiutarti a trovare un lavoro ma dal primo giorno di lavoro in poi non conta più nulla.

Meritocrazia vuol dire che il collega/concorrente cinese, pachistano o messicano ha le tue stesse possibilità.
Se lui o lei produce meglio e più in fretta di te, hai voglia a richiedere ‘meritocrazia‘!

Meritocrazia vuol dire che il tuo capo/capa sarà più giovane e intelligente di te. A me è successo spessissimo. Siete in grado di prendere ordini da chi ‘anagraficamente’ “merita” di meno?

Meritocrazia vuol dire che il titolo universitario ‘inutile’ (non richiesto dal mercato del lavoro) non vi garantisce il lavoro anzi.

Come si dice, qui casca l’asino.

Sì perché il buon Aldo svela, molto chiaramente e direttamente, il succo della meritocrazia anglosassone.
Cioè che va avanti di più, e guadagna di più chi produce di più. Non solo, ma va avanti anche quello che ha scelto il giusto percorso di studi, rispetto alle reali necessità del proprio paese.

Dico subito che anche io sono d’accordo con questo sistema, lo ammiro molto e sono profondamente convinto che possa realmente aiutare a portare avanti una nazione.

Ma la porta avanti perché vanno avanti quelli bravi, e questo significa, inevitabilmente, che restano indietro quelli incapaci.

Dobbiamo (torno al plurale) essere consci di questo, specialmente in un paese in cui domina l’omologazione e l’invidia.

Dobbiamo essere consci che questo sistema meritocratico aumenta sì la crescita e l’efficienza, ma lo fa aumentando la qualità del lavoro non la quantità.

Perché è vero, come dice il blog che

Certo che se sei brava e ti impegni allora la meritocrazia è un paradiso!

Però è anche vero che il numero di chi resta indietro, dei precari, di chi fa un lavoro generico pur avendo una specializzazione (inutile), probabilmente aumenterà.

E questo concetto deve essere molto, molto chiaro.

La produttività e il tempo

Produttività, produttività produttività!

Non posso proprio esimermi dal parlarne anche io, visto che è uno degli argomenti su cui mi interrogo più spesso, sia al lavoro che fuori.
Anzi inizio qui una serie di post dedicati all’argomento, che affronteranno diversi aspetti della realtà lavorativa

Nel caso in oggetto, quando si chiede come aumentare la produttività (che significa come lavorare meglio, tanto per mettere le cose subito in chiaro), di solito la risposta principale che esce fuori dai grandi professori o tecnici è lavoriamo di più.
Come diceva Quelo: la risposta è dentro di te, ma è sbagliata.

Adoro questo video, e in questo caso è perfetto:

La sintesi del video è proprio nel titolo: Andate a casa, cazzo!

Il tempo non è una cosa da sottovalutare o usare senza ragionamento. Non è una risorsa banale da usare a piacimento solo perché non si è capaci di analizzare le metodologie di lavoro e riuscire a capire dove intervenire per migliorare il processo. No, si dice che io in otto ore produco x, quindi se lavoro sedici ore produrrò x moltiplicato due.

Questo calcolo sembra banale e idiota, e infatti lo è.

Certo, sembra sensato a chi fa (o meglio, è nominato) grande project manager e inserisce le sue risorse in un gantt su Project.
Sulla carta il tempo è una risorsa come un altra, quindi se l’aumento mi aumenteranno di conseguenza tutti gli altri valori.

Non cadete in questa trappola. Come dice Pam Selle nell’ignite, andate a casa, usate il vostro tempo per fare cose che servono a voi.

Non è preciso dire che il tempo è denaro.

Il tempo è l’unico denaro esistente.

Tutti noi, che siamo Warren Buffet, Barack Obama o l’ultimo dei barboni che dormono dentro la stazione di Mumbai, abbiamo a disposizione 24 ore ogni giorno.

Il tempo è una risorsa:

  • unica
  • non rinnovabile
  • non aumentabile
  • non vendibile né comprabile

È giusto dedicare del tempo al lavoro, ma una quantità che sia conforme a quanto veniamo pagati. E in ogni caso deve essere ben chiaro che quel tempo noi non lo riavremo mai più.

In uno dei film più belli degli ultimi decenni, Wall Street, Michael Douglas/Gordon Gekko dice una frase memorabile:

I’m talking about liquid. Rich enough to have your own jet. Rich enough not to waste time. Fifty, a hundred million dollars, buddy. A player. Or nothing.

Chi ha tanto potere, ricchezza e soldi sa benissimo il valore del tempo, sa che più si hanno risorse economiche più puoi dare valore alle 24 ore che compongono ogni giorno di ogni essere umano sulla terra. Gekko incluso.

Perché sanno che puoi comprare tutto, ma non tempo in più. Quindi non sprecare il tempo vuol dire godersi la vita in pieno, vuol dire fare quello che si vuole quando si vuole e come si vuole. Certo, i ricchi sono molto più facilitati a farlo, ma nel nostro piccolo tutti possono fare un bilancio della propria giornata e scegliere cosa fare.

Non fatevi fregare, il vostro tempo è la ricchezza più preziosa. Ne avete come l’uomo più ricco o potente della terra.
Non fatevi ingannare da qualche stupido manager che pensa che se state dieci ore davanti al PC produrrete di più che standocene otto.

Lui non ha la più pallida idea di che vuol dire gestire il lavoro delle persone, non sa come si fa a capire quanto lavora una persona. Vede solo degli stupidi numeretti su un foglio Excel, li aumenta e vede il totale che aumenta. E pensa di aver trovato l’uovo di Colombo.

Povero idiota. Lui e tutte le aziende italiane che vanno a picco perché gestite da gente di questo livello.

Andate a casa.
Cazzo.