Ieri sera ascoltavo, come al solito tornando a casa, Focus economia su Radio 24.

Uno degli ospiti di Barisoni era Antonio Ingroia,

Antonio Ingroia

Era intervistato nella sua veste di commissario della società Sicilia e-Servizi, nominato da Crocetta per sistemare la società.

La mission della società è di realizzare un sistema informatico integrato per tutta l’amministrazione pubblica dell’isola, con relativo risparmio di costi, efficienza ecc.
Ovviamente è il solito baraccone per spendere soldi pubblici e fare favori ad amici degli amici.

Va da se che per risistemare una società del genere, magari anche andando a re-internalizzare quanto si era esternalizzato, sia necessario possedere conoscenze informatiche. Almeno di base, almeno di alto livello per poi far lavorare tranquillamente i tecnici.

Che dice però Ingroia? Dice che tra i tanti sprechi che ha trovato ha scoperto che

I dati della Regione Sicilia sono affidati in appalto ad una società della Valle d’Aosta e i server risiedono lì.

E lo diceva come se fosse uno scandalo “i dati della Sicilia sono in Valle d’Aosta!”.
Peccato che, se è stata fatta una gara per quel tipo di appalto, magari europea a seconda del budget, potevano stare anche in Portogallo.
Non sarebbe cambiato assolutamente nulla.

Ma la frase successiva era anche meglio

Abbiamo i dati che devono fare su e giù per lo stivale!

E non solo lo ha detto ieri, ma lo ha anche dichiarato il mese scorso:

Certo in queste settimane ho registrato situazioni paradossali. Basti pensare che i dati della società sono contenuti in un server che sta in Valle d’Aosta. Il che significa che la Regione affronta costi per il trasferimento dei file
Qualcuno in Sicilia, per favore, spieghi ad Ingroia che i file non sono faldoni polverosi, che vanno su e giù per l’A1 sui camion.

Famo la startap!

Più o meno dall’ultima fase della sua vita, e particolarmente dalla sua sovraesposta morte, l’Italia si è riempita di gente che pensa di essere come Steve Jobs.

E nemmeno nella sua fase più importante di visionario innovatore, no, proprio nella sua interpretazione più semplice: l’imprenditore che ha un’idea, che nasce dal nulla. Si potrebbe anche parlare di self made man, ma il termine fu già ampiamente abusato nel nostro paese durante gli anni della Milano da bere, quindi è meglio restare focalizzati solo sull’idea.

Mitizzando, come spesso succede in Italia, le opere del fondatore della Apple, è scoppiata la mania delle startup.

Un sacco di gente, che è convinta di essere geniale come Steve ma solo nata nel paese sbagliato, ha iniziato a parlare di creatività, idee innovative. E, appunto, di fare una startup. Tutti ne parlano e tutti hanno un idea.

E tutti si lamentano che la loro idea non trova fondi.

Eh… ma se nascevo in America, lì sì che investono nelle grandi idee!

Tutte queste sono parole al vento, naturalmente.
Perché un paese come l’Italia che ha sempre visto male la figura dell’imprenditore, che pensa che le PMI siano una risorsa (invece è una iattura), che non fa nulla per incentivare l’impresa privata, aumentando il potere delle controllate pubbliche, che cultura imprenditoriale può generare?

Vi faccio un esempio concreto di quello che succede proprio negli USA, il paradiso delle startup.

Questo è uno screenshot di Inc.com, uno dei siti principali che raccontano il mondo del business a stelle e strisce. In particolare quello high tech, ma i suoi articoli sono molto generici e orientati al mondo degli affari a tutto campo.

INC. Startup

La prima voce del menu principale del sito è proprio Start-up.
Giustamente a Inc. sanno molto bene che l’inizio di tante cose, in particolare nel mondo tecnologico, è una piccola idea nata in una piccola società.

Ma la vedete qual è la prima voce del sottomenu? Scrivere un Business Plan.

Prima di qualsiasi altra cosa, prima addirittura del nome della startup. Perché senza avere un business plan non si va da nessuna parte.

Senza avere un business plan non troverete mai nessuno che vi darà una lira.

Qualche tempo fa (mi pare proprio nei giorni della morte di Jobs, probabilmente parlando del libro Se Steve Jobs fosse nato a Napoli), da Gianluca Nicoletti a Melog su Radio 24 discutevano diversi esperti del settore. Tra loro anche un italiano, che lavora come ventur capitalist a Londra in una società di angel investor, con particolare attenzione al mercato italiano.

Ecco, questa persona ha detto chiaro e tondo che gli arrivano tanti italiani a chiedere soldi. Magari anche con idee buone e interessanti, ma che non hanno un business plan concreto, e spesso non hanno nemmeno idea di cosa sia.

Come possono quindi queste persone pretendere che qualcuno gli dia soldi, se non gli spiegano prima come farà a riaverli indietro, e auspicabilmente a guadagnarci qualcosa?

Sì perché la rivelazione sorprendente non è che basta avere un’idea (di quelle ce ne sono in giro anche troppe), ma bisogna spiegare a che serve e come farla fruttare.
Perché il capitalismo (di questo stiamo parlando, visto che il paradiso degli startupper sono gli Stati Uniti), è un sistema che mira a fare soldi.

Quindi la vostra idea brillante è brillante sì, ma perché serve a far guadagnare. E se trovate uno che di mestiere finanzia le imprese, non sta facendo beneficienza, sta cercando una via per far fruttare i suoi soldi. E la via siete voi.

La colpa di questa situazione è sicuramente un sistema culturale che, come detto, tutto fa tranne che incentivare l’impresa privata (non mi dite delle società che si possono aprire con un euro, ve prego… è la prova che si lavora contro l’impresa non a favore).  Che non spiega come strutturare passi elementari ma fondamentali come il business plan, che non attiva percorsi di formazione e incubazione concreti, magari anche con fondi pubblici (e ci sono eccome…).

Però la colpa principale è sicuramente di chi ha l’arroganza di aver capito tutto, e che fa la povera vittima con l’idea geniale che nessuno capisce. Che “se fossi nato in USA…

Sarebbe uguale, gli avrebbero chiuso la porta in faccia lo stesso.

Vi do un bel consiglio, quando parlate con uno di questi grandi imprenditori in erba, incompresi e frustrati perché nessuno capisce il loro genio, fategli una semplice domanda: mi fai vedere il business plan?

Se vi guardano come se foste un alieno, andatevene e lasciateli a leggere Millionaire.

E a rodersi il fegato.

Chiamate la polizia! O i carabinieri? O i pompieri? O l’ambulanza?

Kabobo Picconatore

La terribile storia di Kabobo il picconatore folle, un personaggio così completo (nome incluso) che sembra uscito da un film horror estivo, ha scosso molte persone, e non sono ovviamente mancate le strumentalizzazioni politiche da tutte le parti né i soliti stracciamenti di vesti dei vari opinionisti televisivi.

Però quello che è e resta un gesto di un folle, e quindi inevitabile per definizione, che sia clandestino o milanese da sette generazioni, ha colpito per un particolare: la mancata segnalazione delle aggressioni. Che ha portato ad un ritardo nell’intervento delle forze dell’ordine, e quindi a ancora più tempo al picconatore per compiere la sua strage mattutina.

Questa cosa è stata analizzata molto bene in questo articolo del Corsera di Milano, dal titolo La paura che ci spinge a non chiamare il 112.

L’articolo ricorda come la follia di Kabobo sia stata segnalata alla polizia un’ora e mezza dopo l’inizio del killing spree.

Le prime tre vittime del folle non hanno infatti avvertito nessuno, se non i soccorsi medici:

Sono svenuto e quando ho ripreso conoscenza la strada era deserta», ha raccontato ieri dal citofono della sua abitazione, accanto alla moglie, dopo essere stato dimesso dall’ospedale. «Ho barcollato fino a casa, ho impiegato tempo». Aggiunge la donna: «Non abbiamo neppure realizzato di cosa si trattasse, per questo non abbiamo pensato di avvertire i carabinieri, ma solo l’ambulanza. In ospedale, quando sono arrivati altri feriti, abbiamo capito».

L’articolo cita anche gli altri aggrediti, dicendo cosa hanno (o meglio non hanno) fatto dopo l’aggressione, prima comunque di andare in ospedale, dove è partito poi l’allarme definitivo.

Il giornalista, cercando di capire il perché di questo comportamento intervista anche i soliti espertoni, sociologhi (ahahhaha) e psic* sempre pronti a commentare tutto, che sintetizzano più o meno così:

Facciamo parte di una società individualista con uno scarso senso della cosa pubblica, come conferma l’episodio di sabato mattina.

O con idiozie ancora peggiori:

La liquidità dei legami di oggi rende quasi impossibile identificarsi nel bene comune, nelle ragioni della collettività.

Ecco, queste sono tutte cazzate.

Il motivo principale, come viene riportato da diversi commentatori all’articolo (che non hanno perso tempo in facoltà inutili e quindi ragionano bene) è molto, molto più semplice.

In Italia non esiste un numero unico di emergenza.

Sì, perché l’Italia è il paese delle parrocchiette, degli orticelli e delle caste. Quindi ognuno deve avere un sistemino suo, un numerino suo a tre cifre, un suo corpo d’emergenza personale.

In altri paesi non esiste questo concetto. Negli Stati Uniti c’è solo il 911. Qualsiasi sia l’emergenza tu chiami loro e loro ti mandano quello che serve, ma tenendo traccia di tutto.

Sì perché in questi casi la velocità di diffusione e la condivisione dell’informazione è essenziale.

Se c’è un pazzo che prende a picconate tre persone e uno chiama il 118, uno il 113 e uno il 112, nessuno correlerà mai le cose. Ognuno penserà ad un caso isolato perché non è conoscenza degli altri tre casi.

Questo si riflette anche sulla popolazione e sulle azioni che i cittadini compiono. Perché se io ho tanti numeri per un’emergenza, quando sarò davvero in emergenza, magari non chiamerò proprio nessuno. Serve una strada da percorrere in momenti critici, non si deve avere scelta. Perché più c’è scelta più si aumenta l’entropia più si hanno comportamenti confusi e non adeguati ad una risposta rapida ed efficiente.

L’unificazione dei numeri di emergenza non è una cosa nuova ma, come tante cose italiche, è dimenticata, ma non da tutti.

Il caos in cui siamo è ben ricordato da 112 Italia, organizzazione che si rifà alla European Emergency Number Association e alla 112 Foundation, una ONG impegnata da anni per far sì che il 112 sia il numero unico di emergenza in tutta Europa. 

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In Italia invece siamo messi così:

Difficile capirci qualcosa vero? Figuriamoci in emergenza.

112 Italia ha una bella pagina in cui descrive la situazione italiana, tra proposte, ipotesi, impegni e quant’altro, e un confronto con la situazione europea.
Tra l’altro proprio la situazione dell’Italia rispetto al resto dell’Europa ha spinto qualche anno fa la Commissione UE ad aprire una procedura di infrazione contro l’Italia, poi archiviata perché il Governo nel 2010 ci ha messo una pezza. Pezza inutile ovviamente, perché si tratta dell’ennesima sperimentazione che non avrà mai né fine né un qualunque risultato utile. Quindi presto temo che ne risentiremo parlare.

Queste che sembrano elucubrazioni esagerate non lo sono, perché corrette procedure e servizi servono a salvare delle vite.

I telefonini e smartphone che tutti abbiamo in tasca permettono di chiamare, anche se bloccati, due numeri: il 911 e il 112.

Quindi se vi serve un’ambulanza in Italia, non la potrete chiamare.

Altro che liquidità dei legami di oggi.

Chi è causa del suo mal…

L’altro giorno vedevo in tv una replica delle Interviste Barbariche di Daria Bignardi. La puntata era di qualche mese fa e aveva come ospite Luna Berlusconi.

lunaberlusconi

La figlia di Paolo, e nipote di Silvio veniva qualificata come Consigliere d’Amministrazione “Il Giornale”, questo fatto è importante, ci torno tra poco.

Dopo le solite domante cazzeggianti , tra gossip, un po’ di attualità, un po’ di scene di vita familiare e ripetuti tentativi di far uscire dalle mura della famiglia Berlusconi commenti su bunga bunga, olgettine e quant’altro (tentativi piuttosto ingenui tra l’altro, ti pare che non difende la famigghia…), la Bignardi fa una domanda abbastanza interessante visto il personaggio.

La domanda è più o meno “cosa si prova a portare il nome di Berlusconi”.
È interessante perché un commento su questo è il vero valore aggiunto che può dare un membro di secondo piano di una famiglia il cui capo ha condizionato l’Italia negli ultimi anni.

La risposta di Luna è stata abbastanza prevedibile, “dico solo dopo chi sono perché c’è un pregiudizio”.

Prevedibile perché la reazione della gente è abbastanza scontata, sia in positivo che in negativo ma in ogni caso molto finta. Luna tuttavia, dopo vari giri su processi e altro, chiude l’intervista con un episodio che rinforza la situazione, sentiamolo:

Ecco l’episodio, oltre ad essere indice di una palese idiozia di chi ha scritto quelle cose, è comunque un segno fondamentale di come è la situazione politica in Italia: una rissa continua tra tifoserie opposte.

Tu puoi essere anche una bravissima persona, ma se scopro che sei d’aa lazzie te gonfio de botte!

Ma la colpa di questo di chi è? Ma di Berlusconi zio ovviamente. Lui ci ha fatto carriera estremizzando le cose in Italia negli ultimi vent’anni, ed è stato sponda per chi dall’altra parte non aspettava altro (anzi l’ha aiutato) per estremizzare a sua volta la propria gente.

Qui viene fuori però il ruolo della signora Luna: lei è nel CdA del Giornale.
Sapendo questa cosa e avendo ascoltato l’episodio, la Bignardi le chiede subito dopo una cosa molto, molto sensata:

“Lei è nel consiglio d’amministrazione del Giornale, ha potere perché si smorzino i toni da tutte le parti. Lo fa? Ci prova?”

E cosa risponde la consigliera, ovviamente guardando subito al focus di tutta la famiglia, ovvero il profitto:

“Cosa devo fare? Devo far vendere meno copie al Giornale?”

Ecco. Allora, cara signora Luna Berlusconi, venda molte copie ma quando le arriva il deficiente di turno, pianga almeno un po’ se stessa.

Guardiamo le scuole, e chi le amministra…

Alla vigilia delle elezioni è girata sui vari social network la solita frasetta ad effetto, benpensante e radical chic, che ti raccoglie centinaia di mi piace e di condivisioni, questa:

Domenica e lunedì si vota nelle scuole pubbliche. Guardatevi intorno, guardate i soffitti, i bagni, le porte, l’intonaco. Guardate dove noi tutto il giorno viviamo e cerchiamo nei nostri limiti umani di costruire, formare e conservare una memoria. Guardate, e pensate che i vostri figli passano più tempo della loro vita dentro quelle aule che in casa vostra. E pensate che lì si forma un cittadino, la sua libertà e la sua vita.
Poi votate…
(Claudia Pepe, insegnante)

La frase in effetti è rimbalzata molto velocemente, riempiendosi di commenti come “ha ragione“, “è uno schifo”, “viva la scuola pubblica”, e altre tipiche banalità da Facebook e compari.

Quello che ho pensato di aggiungere è proprio che dobbiamo guardare le scuole sì, ma guardiamo anche chi le frequenta, chi ci lavora e soprattutto chi le amministra.

Sì perché ci sono entrato in una scuola per votare ieri, ma non ho visto solo quella, ne ho viste alcune accompagnando altre persone a votare. E ne ho viste ancora altre negli scorsi mesi frequentatole per diversi motivi.

E quello che ho visto è che le scuole non sono tutte uguali. Ce ne sono alcune che cascano letteralmente a pezzi, ma ce ne sono altre che hanno strutture ben manutenute, pulite e anche con laboratori informatici degni di questo nome.

Quindi evitiamo i soliti perbenismi che fanno tanto effetto, e cominciamo a ragionare su chi queste scuole le dirige e le gestisce.
Perché evidentemente non sono tutti uguali, non sono tutti bravi…

E mentre riflettevo su questa cosa, neanche a farlo apposta, ho visto questo bel servizio di Nadia Toffa delle Iene, proprio su come vengono gestite le scuole PUBBLICHE (e lo ripeto, perché sono quelle che tutti noi paghiamo con le tante tasse che ci chiede lo Stato). Non si può embeddare nel blog, ma vedetelo.

Parla del famigerato contributo volontario, richiesto in modo illegale e con pratiche allucinanti da presidi e dirigenti vari che palesemente non sanno fare il loro lavoro.
Del problema ne hanno parlato molti, da skuola.net (che ha ispirato il servizio delle Iene), fino alle associazioni di genitori, che spiegano molto chiaramente qual è la situazione.

Quello che mi ha colpito è l’arroganza di quei dirigenti, che non riescono a gestire la situazione e quindi attuano pratiche al limite del ricatto per avere due lire in più.
Che trattano male chi chiede chiarimenti “ma le pare che un dirigente commenti una circolare…” (sì, mi pare proprio visto che lo stipendio di quel dirigente lo paga proprio chi chiede chiarimenti).

Ma soprattutto che non sanno gestire i fondi che hanno in mano.
Lo so benissimo che la situazione è difficile, ma lo è per tutti. E in situazioni difficili vanno prese scelte adeguate e soprattutto vanno messe a dirigere persone competenti.

Non chi ricatta la gente che paga già le tasse per avere la scuola pubblica, non chi è arrivato lì senza quei meriti adeguati o senza la capacità dimostrata di gestire un budget complesso.

Non chi sta lì senza le palle per dire che se non ci sono soldi si chiude. E magari si accorpa e si ottimizza, come si fa in tutte le aziende che sono al limite del fallimento.

Hanno voluto i presidi manager? E allora facessero i manager! Ma scelti, giudicati e se necessario cacciati come i manager però.
Ma non chiedessero soldi, soprattutto con pratiche illegali, a chi di soldi ne tira già fuori troppi per avere servizi che cambiano a seconda di chi comanda, o peggio ancora a seconda dove si vive.

Perché le tasse le paghiamo tutti uguali, in tutte i quartieri di una città, come tutti uguali (purtroppo) sono gli stipendi di quei dirigenti.