Dove c’è la guerra si muore

Dove c’è la guerra si muore

Ho avuto interessanti scambi sul mio articolo precedente, e mi sembra il caso di focalizzare un po’ meglio l’analisi.

Mi sembra importante, visti i tempi che stiamo vivendo. Tanto importante che lo stesso Post che aveva pubblicato la riflessione di Sofri ha poi tradotto un bell’articolo del Washington Post “Cosa vuol dire che soffriamo più per Parigi che per Beirut“.

Proprio questo articolo evidenzia due aspetti che ritengo vadano approfonditi. Il primo è non confondere l’effetto con la causa, il secondo non confondere la presenza fisica in un luogo specifico con la percezione che abbiamo di quel luogo durante la nostra vita (la prima influenza la seconda, ma non possiamo aspettarci che tutti siano stati ovunque).

Il primo aspetto è facile, come è facile dire che visto che “noi, l’Occidente” ha sempre usato quando faceva comodo e bombardato quando ci dava fastidio una certa parte del mondo, non possiamo poi stupirci se ce l’hanno con noi.

È facile sì, ma troppo. Troppo facile fare un nesso (che comunque mantiene una sua logica di fondo) tra le politiche folli di alcune potenze mondiali e le azioni altrettanto folli di chi quelle politiche le ha subite. E non esiste un noi quando si parla di queste cose, non possiamo essere responsabili di quello che ci è successo dopo. Non lo erano le persone al Bataclan, come non lo erano i passeggeri dell’areo russo, come non lo erano gli occupanti delle Torri Gemelle.

Attenzione a fare questo nesso, è un gioco mentale che anche negli anni di piombo ha camminato troppo vicino a giustificare certe azioni che non sono mai giustificabili. Possono essere comprese, ma giustificate mai.

Anzi, fermarsi troppo sul nesso e dire “nessuno ha pianto i morti che l’Occidente ha fatto” fa fare un doppio errore:

  • fa scordare chi quei morti li ha pianti e ha protestato (not in my|our name è una campagna nata proprio l’indomani della “risposta” occidentale agli attacchi dell’11 settembre)
  • sposta l’attenzione su un discorso che vizia la comprensione piena del fenomeno, fornendo da una parte una giustificazione semplicistica, dall’altro levando dal piatto della bilancia le vere ragioni che hanno portato a quelle politiche.

E sulle ragioni di fondo era ed è sempre più necessario discutere, ma senza sovrastrutture o posizioni ideologiche che viziano il discorso politico.

Proprio negli anni di piombo c’era una frase che mi è sempre piaciuta

Né con lo Stato né con le BR.

Voleva dire proprio questo, uscire dall’ideologia facile e appagante dello scontro fra due fazioni che si incolpano a vicenda, per entrare però in un discorso che miri a comprendere le cause delle scelte fatte e che attribuisca le giuste colpe alle conseguenze di quelle scelte.

Il secondo aspetto è quello dei luoghi.

L’articolo del WaPo fa un esempio molto calzante: Beirut.

Ci possiamo stupire se qualcuno muore in una zona che consideriamo di guerra? No.

Quella è la percezione che abbiamo di quel luogo. Uniamola ad una quasi totale ignoranza sul luogo in se (molta gente non sa dov’è geograficamente il Libano, cosa chi ci abiti mangi, che lavoro fa, che stile di vita ha), ed abbiamo un’estraneità immensa verso chi lì vive, ma soprattutto muore.

È una questione di ignoranza sì, ma nel senso più letterale del termine. Può avere una connotazione negativa, ma non sarà mai possibile conoscere tutti i luoghi del mondo, figuriamoci uno che è universalmente noto come un posto dove c’è la guerra.

Parigi non è così, New York non è così, Londra non è così, Tokyo non è così.

Con la Russia il discorso è diverso (e infatti ci sono state polemiche anche per i morti dell’aereo in Sinai, non pianti abbastanza).

La Russia è vicina, ma Mosca mantiene una sua lontananza di fondo tra usi, costumi, lingua e retaggi (ancora molto, molto forti) della Guerra Fredda. Da qui le poche reazioni all’aereo russo, da qui le poche reazioni al teatro Dubrovka, alla metro di Mosca, alla bomba alla stazione di Volgograd (tra l’altro con molte donne-kamikaze, che aggiunge ignoranza allo stupore di chi guarda ai fatti di Parigi).

Diverso era il discorso per la strage di Beslan. Quella era una condizione nota a tutti (i bambini soli a scuola), ed era una condizione che porta preoccupazione comune perché colpisce una categoria debole per definizione: i bambini. L’eco mediatico ha fatto il resto (ve le ricordate le candele sui balconi, sì?).

Torniamo a punto principale, i luoghi per cui si soffre.

Voglio fare qui un esempio più forte, e non serve nemmeno andare così lontano, basta andare a pochi chilometri da chiunque di noi: Scampia.

Qualcuno piange i morti di Scampia? No.
Perché è un luogo vicino, ma totalmente sconosciuto ai più. Sconosciuto in senso fisico, perché la percezione del luogo è praticamente la stessa di Beirut: un posto dove c’è la guerra.

Come per il Libano molti non sanno dove sia, non sanno chi ci abita, non sanno come si viva lì.

E di posti come quelli, dove la gente “si ammazza tra di loro”, non importa molto.

Non dico che sia piacevole parlare di questi meccanismi, ma sono ben radicati e vanno quindi compresi a fondo. Va compreso che il dolore è una cosa personale, egoistica e strettamente legata alla nostra percezione del mondo.

Tornando al post di Sofri, la percezione è sicuramente più forte quando in luogo ci siamo stati, ma è altrettanto radicata sull’idea che abbiamo di un luogo.

Per fortuna noi non viviamo in un luogo di guerra o di violenza, quindi quando succede qualcosa che porta la violenza, i morti e il dolore nei nostri luoghi non possiamo fare che soffrirne di più.

E, francamente, è molto meglio così che se fosse l’esatto contrario.

I nostri luoghi del mondo

I nostri luoghi del mondo

Indignarsi e protestare di questi tempi è facilissimo, basta un mi piace, un retweet o un più uno (ok, quest’ultimo è meno probabile).

Capita quindi sempre più spesso che, se all’alba di un fatto grave, tragico, o comunque che colpisce le coscienze e le vite di molti di noi, ci sia sempre chi prova sgomento e dolore e chi si indigna e protesta. Con un clic.

Questo è successo anche nelle ore e nei giorni successivi agli attacchi a Parigi, quando comprensibilmente gran parte delle persone rilanciavano notizie, foto, commenti e pensieri. Non parlo di inutili cambi di foto del profilo (che sono un po’ l’altra faccia di questa stessa medaglia), quanto del riportare informazioni, scambiare commenti, trovarsi vicini nel fermarsi a riflettere su qualcosa che per un po’ ha portato le nostre menti in posti in cui non volevamo andare.

Parlo di quelli che dicono, puntualmente:

E allora ieri sono morti in duemila in Nigeria, tremila in Uganda, un milione a Timor Est. Perché non ti sei addolorato allora? Eh? Perché?

Luca Sofri ha scritto un bel post in cui parla di questo fenomeno.

Non degli indignati da tastiera in generale, ma proprio di questo sottoinsieme di “antagonisti del dolore”, di “benaltristi dei drammi mondiali”.

E lo dice in modo semplice e lineare come pochi: perché non era il nostro mondo. È inutile giraci intorno ed è inutile fare gli ipocriti su un tema così serio. È utile invece affrontare la verità delle cose: ci importa (ed è giusto che sia così) solo di quello che conosciamo.

Dice Sofri:

Ma più di frequente la ragione per cui abbiamo reazioni che ad alcuni suonano come “due pesi e due misure”, è secondo me comprensibile e legittima, e dovremmo serenamente rivendicarla, invece che sentircene in colpa: soffriamo di più per le persone che ci sono più vicine.

Io vivo a Roma, e a Roma ogni giorno muore un sacco di gente.

Mi importa qualcosa di loro? No.

Mi importa se muore una persona a me cara, o con cui comunque ho avuto un buon rapporto? Sì, in proporzione alla vicinanza con la mia vita mi può importare eccome.

Mi importa ancora di più, anche se non la conoscevo, se quella persona muore in una circostanza che mi potrebbe colpire nella mia vita quotidiana. Se viene investita mentre attraversa le strisce, se c’è un incidente sulla metro, se viene ammazzata durante una rapina andata male.

A me, come ad ognuno di noi, importa del proprio mondo, dei luoghi che frequenta, che conosce, che vive e che ha vissuto.

Il “nostro mondo” è quello, che come dice giustamente Sofri, può essere più ampio o più ristretto a seconda delle proprie esperienze di vita, dei propri viaggi o dei propri interessi. Anzi, dovrebbe essere il più ampio possibile.

Ma è prima di tutto stupido e poi ipocrita (soprattutto se fatto dietro una tastiera) fare paragoni.

Le storie sono diverse, ognuna drammatica a modo suo, e nessuna merita di diventare un argomento di paragone con qualcos’altro.

Sono stato molto, molto male nel 2011 quando ci fu il Grande Terremoto del Tōhoku, perché io lì ci ero stato. Avevo camminato sulle spiagge che vedevo ora spazzate via dallo tsunami e avevo interagito con un gruppo di bambini timidi su quella strada che ora non c’era più.

E sapevo che forse non c’erano più nemmeno quei bambini.

Non a tutti importava però, seppure il Giappone sia un comunque un pezzo del “nostro” mondo occidentale. Non dico che sia giusto o sbagliato, solo che per la maggior parte delle persone è così.

E comprendo questo comportamento, a maggior ragione se viene da persone che hanno altri mondi magari sovrapponibili al mio. Che sono state in Nigeria a vedere come vive la popolazione massacrata da fame e terrorismo, o a Gaza tra bombe e mancanza di tutto e gente che cerca chi sarà il prossimo a farsi saltare in aria. Purtroppo non hanno lo stesso mondo, e non tutti hanno gli stessi luoghi di questo mondo.

Forse è questo quello che ci dovrebbe far più riflettere, e che forse ci dovrebbe aiutare a capire che il mondo è uno. Noi siamo diversi ma ci stiamo tutti sopra insieme.

Salvate Disneyland Paris!

Save Disneyland Paris

Sono un grande fan (anche se un po’ in ritardo) dei Parchi Disney.
Finora ne ho visti solo due. Quello più lontano, Tokyo, e quello più vicino, Parigi.

Essendo stato più volte proprio a Disneyland Paris, l’ho sempre trovato splendido.

Tuttavia, proprio nella visita per i venti anni del parco, ho notato molte cose che non andavano.

Attrazioni chiuse o con guasti continui, zone totalmente abbandonate, negozi con orari ridicoli e in generale tante piccole crepe sia nell’organizzazione che reali, nelle splendide strutture ideate e costruite dagli Imagineers.

Ho aderito quindi con piacere alla richiesta di supporto di Guillaume, il curatore del meraviglioso blog Parcorama che, partendo da un suo articolo sullo stato del parco, e supportato dai tanti fan di Disneyland Paris, ha lanciato una petizione a Bob Iger, CEO della The Walt Disney Company, per fare qualcosa e ripristinare l’alta qualità e bellezza di quello che è forse il più bel Parco Disney al mondo.

Io ho curato la traduzione in italiano della petizione, che trovate qui e riportata alla fine di questo post. Ma ci serve anche il vostro aiuto!

Firmate la petizione su Change.org per salvare Disneyland Paris!
#SaveDisneylandParis

Lettera aperta a Bob Iger, AD della The Walt Disney Company (ITALIANO)

Cordiale Signor Iger, 

quando Lei fu nominato Amministratore Delegato della The Walt Disney Company, nel marzo 2005, gli allora membri del consiglio di amministrazione Roy E. Disney e Stanley Gold cessarono la loro Campagna “Salviamo Disney”. La campagna era stata avviata per ripristinare una politica aziendale che mirasse all’eccellenza, un valore che ha sempre profondamente caratterizzato le attività della The Walt Disney Company, fin dalla sua creazione da parte dello stesso Walt.

Grazie ai Suoi sforzi la The Walt Disney Company è ora più forte che mai. Questo è dovuto ad una serie di eventi chiave, necessari a risolvere dei grandi problemi:

L’acquisizione della Pixar (2006)

Il recupero dei The Walt Disney Studios

Il rilancio e l’espansione del Disney California Adventure (2008-2012)

L’acquisizione di Marvel Entertainment (2009)

L’avvio della costruzione dello Shangai Disney Resort (2011)

L’espansione di Hong Kong Disneyland (2011-2013)

L’acquisizione della Lucasfilm (2012)

Questi grandi investimenti (come l’espansione del Disney California Adventure e di Hong Kong Disneyland) hanno permesso di sistemare delle parti della società che versavano in cattivo stato, e di diventare più forte in aree demografiche che la Sua società mirava a conquistare da molto tempo. Tutti questi eventi chiave hanno una cosa in comune: la qualità del prodotto o dell’esperienza. Come disse una volta un Suo amico e collega, John Lasseter: “La qualità è il miglior business plan”.

Sfortunatamente, recenti sviluppi hanno seriamente danneggiato la qualità di uno dei migliori parchi a tema del mondo: Disneyland Paris. Vorremmo cogliere quest’opportunità per condividere con Lei le nostre sincere preoccupazioni sullo stato del parco, che porta il nome della Sua società in Europa. Noi ci siamo molto affezionati al resort, durante la sua vita relativamente breve rispetto agli altri parchi, e davvero non vogliamo vederlo peggiorare ulteriormente.

Quando aprì il Parco Disneyland (allora si chiamava ancora Euro Disneyland), nel 1992, appariva davvero come uno dei più grandi risultati della Disney: una meraviglia artistica e tecnologica. L’alta qualità dei suoi spettacoli, delle attrazioni e del tema ebbe un grande successo nel pubblico di tutta Europa, e l’esperienza degli ospiti era simile, se non addirittura superiore, a quella di Disneyland e Walt Disney World. Purtroppo, a causa di continui problemi finanziari, la qualità complessiva dell’esperienza è lentamente peggiorata durante il tempo. I tanti anni di tagli al budget della manutenzione, a quello degli spettacoli e dei ristoranti hanno lasciato il resort in uno stato di abbandono inaccettabile.

Quest’anno la qualità è ulteriormente scesa fino a raggiungere un punto critico: il 2013 segna la prima stagione estiva dall’apertura senza nessuno spettacolo messo in scena nei due parchi. È la prima volta che succede nella storia di Disneyland Paris, e probabilmente la prima volta tra tutti i Parchi Disney del mondo.

Vorremmo illustrarLe i principali problemi di Disneyland Paris, dalla nostra prospettiva di visitatori, in queste quattro categorie.

1. Manutenzione

La manutenzione dei parchi, delle attrazioni e degli hotel è stata tralasciata troppo spesso durante gli ultimi venti anni, arrivando al punto che molte strutture non sono più “Disney Standard”. Molti elementi delle decorazioni a tema sono in disfacimento, mentre altre cadono letteralmente a pezzi.

Sicuramente un lato positivo è il programma di ristrutturazione dettagliato che è stato avviato negli ultimi anni, orientato principalmente a ripristinare molte parti di attrazioni, effetti o arredi a tema che erano deteriorati durante questi anni. Mentre è vero che quest’attività indica un’attenzione del management di Disneyland Paris a continuare a mantenere il parco efficiente, purtroppo tocca solo la punta dell’iceberg. I molti anni di abbandono sono costati un caro prezzo al più bel Magic Kingdom che sia mai stato creato; il prezzo per ripristinare la sua gloria passata sembra ora molto più alto, rispetto a quello che sarebbe stato pagato sistemando le cose per tempo.

2. Tagli al budget

Lo show Tarzan Encounters al Chaparral Theater, lo show The Legend of the Lion King al Videopolis, l’iconica parata notturna Disney’s Fantillusion! sono stati tutti cancellati quest’anno. Allo stesso tempo altri teatri o spazi per spettacoli, come Le Théâtre du Château, sono stati lasciati vuoti e in disuso per anni. In aggiunta diverse attrazioni e molti ristoranti e negozi ora aprono solo per un tempo molto limitato: ad esempio dalle 11:00 alle 18:00, mentre il parco è aperto dalle 9:00 alle 23:00. In aggiunta una cattiva manutenzione sta drammaticamente riducendo, nel corso del tempo, la capacita di alcune attrazioni. Ad esempio la Thunder Mesa Riverboat Landing (aperta dalle 11:00 alle 18:00) opera da tanto tempo con solo uno dei due battelli a vapore disponibili, e molte altre attrazioni o montagne russe operano con meno treni, lavorando così a capacità ridotta.

La mancanza di manutenzione, unita ai tagli al budget, ha provocato guasti ciclici che colpiscono tutte le attrazioni. Questi guasti, uniti all’inferiore capacità di accogliere i visitatori, rendono il parco costantemente sovraffollato, proprio mentre Disneyland Paris batte il record di visitatori anno dopo anno; il resort ha accolto sedici milioni di visitatori nel 2012. Il risultato finale è che un giorno a Disneyland Paris è diventato una serie di lunghe camminate tra attrazioni e luoghi aperti e attrazioni e luoghi chiusi.

3. Cibo

L’offerta di cibo e ristorazione nel parco è molto varia, ma la qualità generale è inferiore a quella dei Parchi Americani. La maggior parte dei ristoranti offre o cibo da fast food o un buffet con formula all-you-can-eat. Solo un piccolo numero di ristoranti con servizio al tavolo è disponibile ad oggi, mentre prima ce n’erano molti altri. Questi nel tempo sono stati trasformati in fast food, come ad esempio l’Explorer’s Club che è diventato il Colonel Hathi’s Pizza Outpost, una pizzeria standard.

Negli ultimi anni la qualità del cibo servito ai ristoranti con servizio al tavolo, quelli più cari, è notevolmente peggiorata. Portate di cibo industriale precotto sono servite in pochi minuti dall’ordinazione, questo è segno che il cibo non è preparato espresso. L’offerta di cibo ai ristorandi fast food è troppo cara e non può competere con le altre scelte, come ad esempio il McDonald’s, che è a pochi minuti di cammino dai parchi, nel Disney Village.

Quello che preoccupa di più, oltre al cibo di bassa qualità servito ad alto prezzo, sono gli orari di apertura di alcuni ristoranti. Se il Parco Disneyland chiude alle 23:00, ci si aspetta di poter avere una buona cena, solo per essere delusi dalla chiusura del ristorante alle 19:30. Questi orari troppo brevi rendono impossibile prenotare un pasto nella tarda serata, le uniche opzioni sono cenare prima o rivolgersi ad uno dei fast food nel Parco Disneyland o uscire verso il Disney Village.

 

4. Walt Disney Studios Park

È il parco Disney più piccolo, l’unico senza una dark ride tradizionale, il parco che ancora sta lottando per affermare una sua identità: in breve è il parco che non è mai arrivato al “Disney Standard”. La mancanza di attrazioni, l’ambiente spoglio, il tema generale del parco mai troppo definito, un masterplan non accuratamente disegnato, la bassa capacità delle nuove attrazioni e altro ancora: sono tutti problemi e criticità urgenti. Questo parco ha bisogno di un concreto progetto di ripianificazione e rivalutazione del suo tema, al fine di portarlo al livello standard della Sua società.

Oltre a queste quattro categorie (Manutenzione, Tagli al budget, Cibo, Walt Disney Studios Park), c’è necessità di lavorare sull’ormai vecchio Disney Village, sulla qualità mediocre e sulla scarsa varietà del merchandising, sugli antiquati Hotel Disney, che offrono scarsi servizi a fronte di tariffe molto elevate.

Signor Iger, quanti guasti, attrazioni chiuse, esperienze negative e ospiti scontenti servono ancora prima che la The Walt Disney Company intervenga? Noi non comprendiamo perché, dopo tutti questi anni di problemi, la The Walt Disney Company (che possiede il 40% di Euro Disney S.C.A.) non ha ancora fatto nulla per modificare la struttura finanziaria di Euro Disney. La società fu creata dalla The Walt Disney Company ed è sempre stata finalizzata solo ad operare ad Euro Disney, proprio per diventare una società di successo e senza debiti. A Lei va bene che il brand Disney è offuscato dalla degradata, ma molto cara, esperienza a Disneyland Paris da parte di 740 milioni di cittadini europei? Noi non vogliamo credere che la Disney voglia intenzionalmente far tornare a casa i suoi ospiti europei con dei ricordi e delle esperienze non alla sua altezza.

Naturalmente ci sono molte cose positive su Disneyland Paris. Il design originale del 1992 è meraviglioso, i cast member sono cordiali e attenti, lo spettacolo serale Disney Dreams! è incredibile e il rinnovamento dei prossimi eventi di Halloween e Natale sembra molto promettente. Sfortunatamente la mancanza di attenzione da parte del management mette in secondo piano questi grandi punti di forza.

Signor Iger, Le chiediamo di rivedere il budget operativo per Disneyland Paris. Le chiediamo di non sottovalutare più il parco più bello che sia mai stato creato dai suoi Imagineers. Le chiediamo di ripristinare la qualità nel cenare al parco, di riportare nei teatri gli show dal vivo e gli spettacoli per strada, di sistemare i problemi non appena siano notati, di rivedere completamente il secondo cancello, di aprire nuove e divertenti attrazioni sia nel Walt Disney Studios Park che nel Parco Disneyland. Nessun rimedio rapido, ma una soluzione duratura ai problemi che hanno infestato il resort fin dalla sua apertura.

Walt Disney una volta ha detto “Disneyland non sarà mai completato, continuerà a crescere finché ci sarà ancora immaginazione nel mondo.” Dal 2005 Lei ha brillantemente salvato la Disney, anche con i programmi di salvataggio per Disney California Adventure e per Hong Kong Disneyland. Ora noi Le chiediamo di effettuare un altro salvataggio, quello di Disneyland Paris.

Cordiali saluti,

#SaveDisneylandParis

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