spotify

Non sono un grande utilizzatore di Spotify, sia perché in giro preferisco i podcast sia perché non sento molto musica mentre faccio altre cose (tipo al lavoro). Ogni tanto però sì, soprattutto se voglio sentire qualcosa di specifico, e Spotify è senza dubbio più efficiente di YouTube.

Per farla breve stavo sentendo Life on Mars e pensavo a quanta banda utilizza Spotify, magari se usato intensamente da più utenti sulla stessa linea.
Pensando a questo mi sono ricordato di parecchi anni fa, quando co-gestivo il piccolo CED e i relativi servizi di rete dell’ufficio di una azienda.

L’azienda aveva una banda internet non eccelsa (costava allora come oggi…) e serviva principalmente a ricevere dati e dialogare con diversi dispositivi sparsi per il territorio, più a fornire servizi ai clienti dell’azienda stessa. Questo significava che l’utilizzo della banda era uno dei punti critici da tenere sotto controllo per garantire l’efficienza dei servizi.

E girando lì sopra soldi, di qualcuno che stava due stanze più in la, vi garantisco che l’efficienza era il principale problema di noi che gestivamo l’IT.

Quello che succedeva era che in momenti più di calma, come la pausa pranzo o la tarda mattinata, l’occupazione della banda internet andava sempre a saturarsi, fino a rendere anche critica in certi casi l’erogazione dei servizi.

Ci stavano attaccando? DDoS in corso? Tutti i clienti si erano collegati contemporaneamente?

No, semplicemente quasi tutti ascoltavano la radio in streaming.

All’epoca (periodo pre-iPhone, 2005/2006) l’avanguardia dello streaming era praticamente solo uno Real Player.

Real Player
Ve lo ricordate? Questo qua.

Anche se di qualità infima rispetto a quello che può offrire un colosso come Spotify (ma anche YouTube in HD) sette/otto postazioni collegate contemporaneamente potevano comunque provocare una salita dell’occupazione di banda sopra il livello critico.

Il bello era che sentivano quasi tutti la stessa radio. Quindi la soluzione fu abbastanza brutale (dietro impetuoso diktat del Boss), QoS applicata duramente e, laddove non si riuscì ci pensò qualche regola ad hoc del firewall davanti al proxy.

BOFH like, ma efficace.

Tutti capirono e infatti nel giro di qualche giorno si moltiplicarono le radioline o le cuffiette dal telefonino. Cosa che tra l’altro permetteva una qualità molto maggiore dell’audio… quindi non capisco cosa ci trovassero di bello nello streaming a 12kbps di Real Player.

Quindi mi immagino cosa possa succedere ora in un ufficio di medie dimensioni, quando tutti si attaccano a Spotify (ma ce ne sono tanti di servizi OTT che mandano tutto in streaming). Il tutto magari per sentire sempre le stesse canzoni, o anche peggio brani che si hanno a casa su cd e che basterebbe portare sul PC dell’ufficio o sul proprio smartphone.

Siamo in un periodo di dispositivi sempre connessi, i GB di traffico anche mobile si sprecano e l’ADSL è sempre flat. Ma pensate che se lavorate in un’azienda che eroga servizi magari quella banda serve anche per cose un po’ più serie.

Un po’ come a casa vostra quando vi si rallenta il download da torrent se attaccate a vedere Mediaset Play, Infinity, Sky Online o anche solo YouTube dalla smart TV.

Quindi quando arriva il tennico che vi abbassa la banda per le canzoni, non guardatelo male.

Portatevi una bella chiavetta con tanti mp3.
Sarà una roba quasi vintage, ma funziona.

E comunque

Rule Britannia is out of bounds
To my mother, my dog, and clowns

Pubblicità

La burocrazia distrugge l’iniziativa. Poche sono le cose che i burocrati odiano più delle innovazioni, specialmente quelle innovazioni che producono risultati migliori delle vecchie abitudini.

I miglioramenti fanno sempre sembrare inetti quelli che sono in cima al mucchio.

A chi piace sentirsi inetto?

Una guida alla Prova e all’Errore nel Governare, Archivio del Bene Gesserit.

Roma, Alemanno, Marino e il potere

La situazione della Capitale è sotto gli occhi di tutti, non solo per questo periodo di maltempo e pioggia continua (curioso in inverno…), quanto per lo stato di paralisi, politica e soprattutto operativa, in cui versa l’amministrazione della città. Ultimissima notizia il decadimento di un gioiello espositivo come il MACRO, rarissimo esempio di struttura degna di una capitale europea, inserita in un contesto sociale e strutturale degno di una capitale del terzo mondo.

Non sono mai stato un fan del sindaco Marino, ma era ovvio che dopo la disastrosa era Alemanno non poteva che vincere lui. Questo forse è stato l’errore “padre” politico del Partito Democratico. Quello cioè di non saper proporre una figura potente, degna davvero di donare a Roma il prestigio che merita e capace di valorizzarla e farne un esempio del resto del paese.  Questo la dirigenza locale e nazionale del PD non ha saputo farlo.

Memori forse della cocente sconfitta del turno precedente, quando un Rutelli in modalità minestra riscaldata (era quello delle felpe “non è il mio sindaco”, non scordiamocelo) fu fatto sbattere proprio contro un Alemanno al massimo della sua carriera e forza politica (era apprezzato pure da Luttazzi, tanto per dire…).

I grandi punti deboli di Marino erano due:

  1. scarsa conoscenza della città, del suo tessuto socio-politico e dei suoi meccanismi di funzionamento
  2. scarsissima forza politica all’interno del proprio partito

Questi erano ben evidenti a tutti, e sono diventati palesi

Ma cos’è che Marino non ha fatto subito, invece di buttarsi anima e corpo (e soldi nostri) nella buffonata della “pedonalizzazione” dei Fori?

Non ha fatto come Alemanno.

Alemanno quei due punti deboli di Marino li aveva sì, ma al contrario come punti di forza.

Era forte nel suo partito e conosceva benissimo i meccanismi di funzionamento della città. Talmente bene che durante i primi cruciali mesi del suo mandato ha blindato i luoghi del potere con i suoi fedelissimi. Facendo in modo di governare e controllare tutto.

Proprio in quel periodo, usciva questo libro-inchiesta di Claudio Cerasa

La presa di Roma

Cerasa racconta, qui trovate l’introduzione, proprio con quale metodo e sistematicità Gianni Alemanno e i suoi hanno smontato pezzo a pezzo le roccaforti del potere “rosso” romano. E questo ancora prima delle elezioni, non dimentichiamo che Alemanno è stato votato anche da molte persone di sinistra. Illustra con quale abilità, ma soprattutto conoscenza, Alemanno abbia portato a se i vari gruppi di potere (palazzinari, dirigenti pubblici e delle municipalizzate, la chiesa, i tassinari), andando prima a fare terra bruciata di quasi vent’anni di governo “rosso”, e poi a costruire sopra le sue, di roccaforti.

Il libro non è solo un’analisi dell’operato politico dell’ex primo cittadino di Roma Capitale (altro segno, il cambio di nome del comune), quanto proprio una mappa dei vari potentati e mafiette che, come naturale in ogni organizzazione italica, detengono realmente il potere a Roma.

Alemanno ha potuto fare tutto questo perché sapeva con chi andare a parlare e aveva l’autorità per farlo.

Marino purtroppo queste cose non le sa. Ci ha provato all’inizio a cambiare qualcosa, almeno laddove identificava aree più critiche come ad esempio i vigili urbani, ma ha rimediato solo figuracce su figuracce.

Per non parlare del resto, la giunta è sempre sul punto di esplodere per le ridicole ripicche dei partiti che compongono la maggioranza. Il tutto ovviamente non fa altro che sminuire la forza politica di Marino, che si ritrova sempre più isolato e con altri che prendono decisioni al posto suo.

Delle municipalizzate poi nemmeno parlo, l’Ama è allo sbando (e ricordiamo che l’interlocutore principale di Cerroni era Di Carlo…) e l’Atac ha sì un manager degno di questo nome, ma se non vengono toccate le logiche dirigenziali interne ci sarà poco da fare.

Certo, detto tutto questo c’è da dire però che Alemanno non è stato rieletto. Come ho scritto prima la sua era è stata disastrosa.

Disastrosa perché pur avendo mosso con sapienza tutte le leve giuste, alla fine è rimasto invischiato nei favori agli amici che lo avevano messo lì, nella sua incapacità reale di affrontare almeno i problemi base dei romani (Veltroni con tutte le feste e le case almeno manteneva i servizi in uno stato accettabile), nella sua foga di potere dopo anni e anni di attesa. Senza contare il fallimento più grande di una personalità politica di destra: la sicurezza. Dopo aver fatto campagna elettorale su quel tema (e anche meschinamente su qualche morto), Roma è stata del tutto abbandonata a se stessa, fino ad arrivare ad uno stato di rischio e vuoto di controllo estremo come in questi giorni. Un luogo dove ognuno fa quello che vuole, violando regole, leggi e a volte anche mettendo a rischio la vita delle altre persone.

Alemanno, e il libro di Cerasa lo fa capire, non aveva un’idea di città, ma solo di potere. Tutto questo ha portato ad una sconfitta certa, anche se ritengo che essere arrivato al ballottaggio è stata comunque un successo politico, visti i precedenti. A Marino non è andata bene sicuramente, per l’enorme peso dell’eredità di Alemanno e di tutti i suoi guai da risolvere.  Ma non aveva, e purtroppo non ne ha ancora, la capacità di risolverli, quei problemi.

Magari poteva leggersi La presa di Roma dopo essere stato eletto, ma forse sarebbe stato troppo tardi comunque.

A tutti i romani come me non posso che dire una cosa: tanti auguri.

La birra, le tasse e la politica industriale

Questa storia è un esempio perfetto del perché tante cose in Italia non vanno.

Il motivo principale è l’incompetenza politica, che pensa stupidamente all’immediato. Senza capacità di programmare, perché non ha la capacità di comprendere, una politica industriale che serva a far crescere il paese.

Da qualche giorno infatti è partita la campagna #salvalatuabirra

Salva la tua birra

Il perché di questa campagna, promossa da AssoBirra, associazione di Confindustria dei produttori di birra e malto, è dovuto al fatto che il governo ha in progetto di aumentare del 35% le accise sulla birra.

I produttori giustamente protestano perché questo aumento significa che mentre ora di un euro di birra se ne va in tasse il 33%, con il nuovo aumento si arriverebbe al 47%, ovvero metà della birra che bevete la pagate in tasse!

Già questo basterebbe ad incazzarsi non poco, ma ho detto che questo è un esempio di incapacità a programmare una politica industriale.

Perché quindi questa storia tutta italiana di tasse è un case study? Partiamo da un presupposto: la birra per l’Italia è un ramo industriale strategico.

Perché? Perché storicamente l’Italia non ha una grande tradizione birraia, come ad esempio le nazioni mitteleuropee, o anche qualche paese dell’America o dell’Asia.

L’Italia è uno dei grandi produttori di vino, non di birra.

Quindi è un settore che va considerato strategico per un motivo: ha enormi margini di crescita.

Essendo famosi per il vino, nessuno ci considera per la birra, quindi facendo le cose fatte bene sia dal lato industriale che dal supporto statale, ci potrebbe essere un grande boom del settore.

Così è stato infatti negli ultimi anni.
Nonostante i due principali gruppi, Peroni e Moretti, siano passati in mano straniera (vuoi per incapacità politica di proteggere i marchi, vuoi per necessità di consolidamento del mercato), il mercato della birra italiana è in grande fermento (permettetemi il gioco di parole).

Infatti negli ultimi anni sono nate centinaia di piccole imprese e birrifici artigianali, è cresciuto un grande interesse per la bevanda anche dovuto alla possibilità di una facile autoproduzione.

Basta guardarsi attorno, e vedere come i pub si siano riempiti di birre artigianali, realtà come Baladin sono ormai diventate quasi mainstream e alcune birre artigianali ottime come quelle di Amarcord si trovano addirittura nei discount.

Personalmente conosco diverse persone che sperimentano la fermentazione casalinga, e i beer shop sono sempre di più.

Inoltre, sempre guardando dal lato della pianificazione strategica, la birra è un prodotto interno, visto che il 70% della birra bevuta in Italia è anche consumata qui. E questo significa che il circolo virtuoso è ottimale perché non solo i soldi restano qui, ma ci sono ulteriori margini per una possibile crescita verso l’estero, dopo un consolidamento industriale in Italia.

Su tutta questa situazione, ovviamente, arriva la mano dello stato.

Per quanto riguarda le tasse la birra è colpita dalle accise.  L’accisa è una imposta che colpisce alcuni prodotti particolari (alcoolici, tabacco, energia), legati ai monopoli statali.
L’accisa colpisce non il valore del bene (come l’IVA), ma la quantità della produzione (si paga a ettolitri o a chili), quindi ha un impatto diretto sui costi di produzione.

Tabella Accise

Il vino ha accise? No, ed è corretto che sia così, visto che essendo uno dei principali prodotti dell’industria alimentare, va incentivato, non frenato.
Il vino paga solo l’IVA.

La birra pero ha accise, non solo, ha accise altissime rispetto agli altri paesi UE, in particolare del principale competitor in questo settore: la Germania.

Questo differenziale già ora indebolisce la competitività a livello europeo della birra italiana,

Birra Germania Spagna

Osservando quindi tutta questa situazione, si hanno

  • grandi marchi italiani che però hanno lasciato le fabbriche qui e danno lavoro a migliaia di persone
  • un grande interesse imprenditoriale che ha portato all’apertura di centinaia di PMI birraie
  • una grande interesse commerciale, con decine di migliaia di consumatori che vogliono di più del solito peroncino
  • un settore in cui l’Italia è in una posizione di nicchia, quindi può solo aumentare

Insomma la situazione è ideale per eliminare quanto più possibile tasse, accise e altri oneri, favorire la produzione indipendente e far crescere le piccole e valide aziende birraie, aiutandole anche a mandare il loro prodotto all’estero, lì dove c’è spazio per vendere ottima birra italiana.

Produzione birra

Invece, ovviamente, no.
Avendo visto che c’è un grande giro d’affari, un settore in crescita, e pensando solo a raccogliere più tasse invece di tagliare le spese, si aumentano enormemente le accise sulla birra.

Non ci vuole un genio a capire che questa è la strada più facile, certo, ma è quella più folle, idiota e pericolosa.

Perché? Molto sempilce

  • ai grandi marchi, SABMiller e Heineken, non converrà più produrre in Italia la Peroni e la Moretti, la faranno dove si paga meno tutto
  • le piccole aziende vedranno i costi aumentare, oltre a tutte le altre difficoltà di fare impresa in Italia, e chiuderanno
  • i consumatori, in un periodo di crisi dei consumi, lasceranno il prodotto, o si rivolgeranno a marchi più grandi, esteri
  • i margini di crescita, interni ed esterni, saranno segati via, rendendo impossibile una crescita commerciale della birra italiana all’estero

Insomma si taglieranno le gambe ad un settore in crescita per fare pochi euro in più, o anche meno.

Ecco quindi completo l’esempio di stupidità legislativa e miopia industriale.

Lì dove l’unico intervento statale sarebbe supportare, detassare ed incentivare, proprio lì lo stato vede un settore che sta crescendo.
E vuole metterci le mani per arraffare quanto più possibile.

E come al solito, tra qualche anno, staremo tutti lì a parlare di un’altra grande occasione persa dall’Italia.

Ma la colpa, come al solito, sappiamo tutti di chi è.

#salvalatuabirra

Perché si sa, i negri…

Sono le due di notte a Boston, è una fredda, buia e cupa notte di gennaio 1995.

Quattro uomini, tutti neri e con abiti scuri, escono dal parcheggio di un fastfood a bordo della loro Lexus dorata. Alla radio risuonano le note di Streets of Philadelphia del Boss, e alle loro spalle lasciano un cadavere ucciso a colpi di pistola.

Durante la fuga, la radio della polizia trasmette erroneamente la notizia che il morto è un poliziotto. Questo trasforma un normale inseguimento a dei criminali di una gang di Boston in una caccia all’uomo, e alla vendetta, che coinvolge tutte le volanti di tutti i distretti della città.

La Lexus si ferma in un vicolo cieco, mentre attorno il suono delle sirene della polizia si fa sempre più vicino. I quattro occupanti escono, scappando via in direzioni diverse.

La prima auto della polizia ad arrivare è un’auto civetta, guidata da un poliziotto in borghese Michael Cox.
Cox è un agente esperto della squadra antigang, anche lui è cresciuto nel ghetto, anche lui è nero e quella sera ha indosso una felpa e jeans scuri.

Cox si getta all’inseguimento di uno dei sospettati, “Smut” Brown. Lo bracca fino ad una grata metallica dietro una delle case del quartiere, ma Brown riesce a saltare dall’altra parte. Cox allora si prepara a scalare anche lui la grata, quando viene colpito alla testa da un oggetto pesante, forse una torcia, più probabilmente un manganello.

Un altro agente della polizia, in uniforme, era arrivato sulla scena e aveva scambiato Cox per uno dei sospettati. In poco tempo Cox, ormai a terra quasi svenuto, viene circondato da altri poliziotti che iniziano a pestarlo. Ad un tratto qualcuno urla: Fermatevi, è un poliziotto! È un poliziotto!“.

Tutti scappano, lasciando Cox svenuto, con un trauma cranico, ferite ovunque e un danno al fegato.

Contemporaneamente arriva sulla scena Kenny Conley, bianco, atletico. Conley vede Brown scavalcare la grata, lo insegue e lo arresta dopo qualche isolato.

Conley fu interrogato sull’accaduto, ma disse di non aver visto l’aggressione a Cox. Fu incriminato per questo (ma prosciolto dopo diversi anni e processi e implicazioni psicologiche di cui parlerò un’altra volta), ma in ogni caso non fu mai possibile individuare i poliziotti coinvolti nel pestaggio.

Perché si sa, se un negro sta tentando di scalare una grata è sicuramente colpevole, e se ha sparato ad un poliziotto va ammazzato di botte.

Sono circa le due di notte a Perugia è una fredda, buia e cupa notte di novembre 2007.

Un ragazzo, nero, è in bagno a casa di un’amica perché non ha forti dolori di pancia. Per passare il tempo ha messo le cuffie (enormi, come previsto dalla moda) del suo iPod. Forse sta sentendo Ayo Technology, di 50 Cent e Justin Timberlake.

Ad un tratto sente degli strani rumori provenire dalle altre stanze della casa. Rumori seguiti da un urlo, l’urlo della sua amica.

Il ragazzo, che si chiama Rudy Guede, si toglie le cuffie, si tira su i pantaloni ed esce dal bagno.

Andando nella camera dell’amica vede altri due ragazzi, un uomo ed una donna. Entrambi bianchi, entrambi WASP.

L’uomo lo guarda e dice:”Negro trovato, negro accusato.”
I due se ne vanno e lasciano Guede da solo nella casa, insieme alla sua amica. Che si chiamava Meredith Kercher, e che ora è morta, sgozzata, nella sua camera.

Guede scappa, ma viene in seguito arrestato (dopo l’arresto e la successiva scarcerazione di un altro negro accusato ingiustamente, Patrick Lumumba), accusato e condannato per concorso nell’omicidio di Meredith. Durante il processo testimonierà che a dirgli quella frase fu Raffaele Sollecito. Uno dei due bianchi. La sua versione non è stata provata giuridicamente, ma la frase di Sollecito era ed è assolutamente verosimile. Anche in Italia, nel 2007.

Perché si sa, se un negro viene trovato sulla scena di un crimine sarà sicuramente colpa sua.

Sono circa le sette di sera a Sanford è una fredda, buia e cupa sera di febbraio 2012.

Un ragazzo di 17 anni, nero, è all’interno di Twin Lakes, un consorzio urbano nella città della Florida. Il consorzio è un’area privata protetta da grate.

Il ragazzo sta tornando da un minimarket 7-eleven, si chiama Trayvon Martin ed è a casa della fidanzata del padre, che abita a Twin Lakes.

Sulla stessa strada passa l’auto di un uomo, ispanico, di nome George Zimmerman. Alla radio danno Set Fire to the Rain di Adele.
Zimmerman, che  è uno dei responsabili della ronde di abitanti nel consorzio di Twin Lakes, vede Martin. Forse lo chiama, ma il ragazzo si spaventa, e fugge.

Zimmerman non lo conosce, pensa che sia un ladro, lo insegue e gli spara. Uccidendolo.

Qualche giorno fa, dopo un lungo e faticoso processo, George Zimmerman è stato assolto per l’omicidio di Trayvon Martin, in nome della legge statunitense Stand-your-ground, che giustifica l’utilizzo della forza in caso un cittadino si senta in grave ed incombente pericolo.

Il verdetto ha portato grande emozione e rabbia nell’opinione pubblica americana.

Talmente tanto che il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, un nero che ha sempre minimizzato le implicazioni razziali, e ha sempre cercato di riportare il discorso alla persona e non alla sua etnia, ha detto in un una conferenza stampa che: “35 anni fa, Trayvon Martin avrei potuto essere io.”

E ha aggiunto che, almeno fino a quando non è diventato senatore, è stato uno dei tanti afroamericani che abbiano sentito gli sportelli bloccarsi, mentre si avvicinano a un’auto.

Perché si sa, se un negro gira attorno a casa vostra è per rapinarvi o per uccidervi.
E va ucciso prima lui.

Italia e USA non sono diverse, sono fin troppo uguali in questa storia.

E se nella più grande democrazia del mondo ancora oggi un ragazzo può morire perché nero, o un poliziotto può essere ammazzato di botte dai suoi colleghi perché nero. In Italia le cose non cambiano di molto, anzi come al solito siamo sempre un po’ indietro  e messi peggio rispetto agli USA.

In Italia un ministro nero (e siamo onesti, messo lì perché nero), viene aggredito con toni apertamente razzisti da uno dei più alti esponenti dello Stato. E ancora più grave sono le ridicole giustificazioni, come se fosse lo stesso prendere in giro uno perché è basso, grasso o zoppo.

Perché si sa, i negri sono come le scimmie delle foreste da cui provengono.

E non servono leggi speciali ad aggravare un reato rispetto ad un altro, leggi che anzi continuano ad umiliare le minoranze (puttane, negri, nerd, froci, ciccioni, chi più ne ha più ne metta).

Servono cambiamenti culturali profondi e applicare bene le regole che già ci sono.

E non pensate che serva aspettare che arrivino le seconde e terze generazioni di immigrati.

Gli Stati Uniti saranno alla ventesima, ma i negri sono sempre colpevoli e Bruce deve sempre cantare questa maledetta e bellissima canzone.