Questa è la verità della situazione italiana. Perché non è pensabile ancora sostenere che sia Renzi a riabilitare Berlusconi.
Riabilitare da cosa poi, visto che nessuno lo ha mai disabilitato.
Sono le due di notte a Boston, è una fredda, buia e cupa notte di gennaio 1995.
Quattro uomini, tutti neri e con abiti scuri, escono dal parcheggio di un fastfood a bordo della loro Lexus dorata. Alla radio risuonano le note di Streets of Philadelphia del Boss, e alle loro spalle lasciano un cadavere ucciso a colpi di pistola.
Durante la fuga, la radio della polizia trasmette erroneamente la notizia che il morto è un poliziotto. Questo trasforma un normale inseguimento a dei criminali di una gang di Boston in una caccia all’uomo, e alla vendetta, che coinvolge tutte le volanti di tutti i distretti della città.
La Lexus si ferma in un vicolo cieco, mentre attorno il suono delle sirene della polizia si fa sempre più vicino. I quattro occupanti escono, scappando via in direzioni diverse.
La prima auto della polizia ad arrivare è un’auto civetta, guidata da un poliziotto in borghese Michael Cox.
Cox è un agente esperto della squadra antigang, anche lui è cresciuto nel ghetto, anche lui è nero e quella sera ha indosso una felpa e jeans scuri.
Cox si getta all’inseguimento di uno dei sospettati, “Smut” Brown. Lo bracca fino ad una grata metallica dietro una delle case del quartiere, ma Brown riesce a saltare dall’altra parte. Cox allora si prepara a scalare anche lui la grata, quando viene colpito alla testa da un oggetto pesante, forse una torcia, più probabilmente un manganello.
Un altro agente della polizia, in uniforme, era arrivato sulla scena e aveva scambiato Cox per uno dei sospettati. In poco tempo Cox, ormai a terra quasi svenuto, viene circondato da altri poliziotti che iniziano a pestarlo. Ad un tratto qualcuno urla: “Fermatevi, è un poliziotto! È un poliziotto!“.
Tutti scappano, lasciando Cox svenuto, con un trauma cranico, ferite ovunque e un danno al fegato.
Contemporaneamente arriva sulla scena Kenny Conley, bianco, atletico. Conley vede Brown scavalcare la grata, lo insegue e lo arresta dopo qualche isolato.
Conley fu interrogato sull’accaduto, ma disse di non aver visto l’aggressione a Cox. Fu incriminato per questo (ma prosciolto dopo diversi anni e processi e implicazioni psicologiche di cui parlerò un’altra volta), ma in ogni caso non fu mai possibile individuare i poliziotti coinvolti nel pestaggio.
Perché si sa, se un negro sta tentando di scalare una grata è sicuramente colpevole, e se ha sparato ad un poliziotto va ammazzato di botte.
Sono circa le due di notte a Perugia è una fredda, buia e cupa notte di novembre 2007.
Un ragazzo, nero, è in bagno a casa di un’amica perché non ha forti dolori di pancia. Per passare il tempo ha messo le cuffie (enormi, come previsto dalla moda) del suo iPod. Forse sta sentendo Ayo Technology, di 50 Cent e Justin Timberlake.
Ad un tratto sente degli strani rumori provenire dalle altre stanze della casa. Rumori seguiti da un urlo, l’urlo della sua amica.
Il ragazzo, che si chiama Rudy Guede, si toglie le cuffie, si tira su i pantaloni ed esce dal bagno.
Andando nella camera dell’amica vede altri due ragazzi, un uomo ed una donna. Entrambi bianchi, entrambi WASP.
L’uomo lo guarda e dice:”Negro trovato, negro accusato.”
I due se ne vanno e lasciano Guede da solo nella casa, insieme alla sua amica. Che si chiamava Meredith Kercher, e che ora è morta, sgozzata, nella sua camera.
Guede scappa, ma viene in seguito arrestato (dopo l’arresto e la successiva scarcerazione di un altro negro accusato ingiustamente, Patrick Lumumba), accusato e condannato per concorso nell’omicidio di Meredith. Durante il processo testimonierà che a dirgli quella frase fu Raffaele Sollecito. Uno dei due bianchi. La sua versione non è stata provata giuridicamente, ma la frase di Sollecito era ed è assolutamente verosimile. Anche in Italia, nel 2007.
Perché si sa, se un negro viene trovato sulla scena di un crimine sarà sicuramente colpa sua.
Sono circa le sette di sera a Sanford è una fredda, buia e cupa sera di febbraio 2012.
Un ragazzo di 17 anni, nero, è all’interno di Twin Lakes, un consorzio urbano nella città della Florida. Il consorzio è un’area privata protetta da grate.
Il ragazzo sta tornando da un minimarket 7-eleven, si chiama Trayvon Martin ed è a casa della fidanzata del padre, che abita a Twin Lakes.
Sulla stessa strada passa l’auto di un uomo, ispanico, di nome George Zimmerman. Alla radio danno Set Fire to the Rain di Adele.
Zimmerman, che è uno dei responsabili della ronde di abitanti nel consorzio di Twin Lakes, vede Martin. Forse lo chiama, ma il ragazzo si spaventa, e fugge.
Qualche giorno fa, dopo un lungo e faticoso processo, George Zimmerman è stato assolto per l’omicidio di Trayvon Martin, in nome della legge statunitense Stand-your-ground, che giustifica l’utilizzo della forza in caso un cittadino si senta in grave ed incombente pericolo.
Il verdetto ha portato grande emozione e rabbia nell’opinione pubblica americana.
Talmente tanto che il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, un nero che ha sempre minimizzato le implicazioni razziali, e ha sempre cercato di riportare il discorso alla persona e non alla sua etnia, ha detto in un una conferenza stampa che: “35 anni fa, Trayvon Martin avrei potuto essere io.”
E ha aggiunto che, almeno fino a quando non è diventato senatore, è stato uno dei tanti afroamericani che abbiano sentito gli sportelli bloccarsi, mentre si avvicinano a un’auto.
Perché si sa, se un negro gira attorno a casa vostra è per rapinarvi o per uccidervi.
E va ucciso prima lui.
Italia e USA non sono diverse, sono fin troppo uguali in questa storia.
E se nella più grande democrazia del mondo ancora oggi un ragazzo può morire perché nero, o un poliziotto può essere ammazzato di botte dai suoi colleghi perché nero. In Italia le cose non cambiano di molto, anzi come al solito siamo sempre un po’ indietro e messi peggio rispetto agli USA.
In Italia un ministro nero (e siamo onesti, messo lì perché nero), viene aggredito con toni apertamente razzisti da uno dei più alti esponenti dello Stato. E ancora più grave sono le ridicole giustificazioni, come se fosse lo stesso prendere in giro uno perché è basso, grasso o zoppo.
Perché si sa, i negri sono come le scimmie delle foreste da cui provengono.
E non servono leggi speciali ad aggravare un reato rispetto ad un altro, leggi che anzi continuano ad umiliare le minoranze (puttane, negri, nerd, froci, ciccioni, chi più ne ha più ne metta).
Servono cambiamenti culturali profondi e applicare bene le regole che già ci sono.
E non pensate che serva aspettare che arrivino le seconde e terze generazioni di immigrati.
Gli Stati Uniti saranno alla ventesima, ma i negri sono sempre colpevoli e Bruce deve sempre cantare questa maledetta e bellissima canzone.
La notizia della morte di Douglas Engelbart è passata un po’ troppo in sordina, anche e soprattutto sui siti di tecnologia e sui blog che di solito ospitano questo genere di informazioni.
È successo perché Engelbart non era quel tipo di persone che amano stare davanti all’obbiettivo, in fondo è sempre stato uno dei più grandi ingegneri che hanno creato il sistema complesso sul quale state leggendo questo articolo.
Anche la definizione visionario, in fondo, sembra più un etichetta postuma piuttosto che una reale descrizione della sua attività.
Engelbart è ricordato nei frettolosi coccodrilli solo per il suo contributo all’invenzione del mouse, ma le sua idee sull’interoperabilità dei sistemi erano così dettagliate e puntuali, che sono tutt’oggi la base su cui fonda l’idea stessa di Internet.
Kottke, nell’articolo che lo ricorda, pubblica uno spettacolare filmato di una presentazione fatta da Engelbart quando lavorava allo Stanford Research Institute, uno dei gruppi di lavoro sponsorizzati dall’agenzia DARPA.
La presentazione è stata, giustamente, definita la madre di tutte le demo.
Nel filmato Engelbart descrive, con una chiarezza e competenza tipica di chi davvero sa fare il proprio lavoro, cose come: il mouse, la videoconferenza, l’ipertesto, la videoscrittura, il link dinamico a file e oggetti. Addirittura un editor collaborativo in tempo reale.
Sono tutte cose che noi oggi diamo (un po’ troppo) per scontato, ma che nel 1968 erano considerate praticamente fantascienza dalla maggior parte della popolazione. Tanto per fare un esempio, nel 1968 in Italia andava ancora in onda in televisione Non è mai troppo tardi, con il maestro Manzi.
Ecco, in quello stesso periodo Engelbart, come ricordato in un bell’articolo di The Atlantic, sviluppa concetti oltre ad un semplice strumento di puntamento.
Grazie anche al lavoro fatto da altri scienziati e tecnologi (come Vannevar Bush), Engelbart ha lavorato per creare
an integrative and comprehensive framework that ties together the technological and social aspects of personal computing technology.
Ha posto le basi per la creazione di un nuovo tipo di persona che, sfruttando il legame uomo-tecnologia tramite una interfaccia adeguata tra utente e sistema, possa disporre di strumenti più evoluti rispetto ai propri. E con questi possa affrontare i problemi di una società che diventa ogni giorno più complessa.
In quei pochi concetti c’è tracciata la strada verso cui stiamo andando in questi anni, tra internet of things e realtà aumentata, tra web collaborativo e smart cities.
Come chiude giustamente The Atlantic:
The Internet is still young, the web younger still. We do not know what form they will take.
Purtroppo, se n’è andato qualcosa di più del semplice inventore del mouse.
La terribile storia di Kabobo il picconatore folle, un personaggio così completo (nome incluso) che sembra uscito da un film horror estivo, ha scosso molte persone, e non sono ovviamente mancate le strumentalizzazioni politiche da tutte le parti né i soliti stracciamenti di vesti dei vari opinionisti televisivi.
Però quello che è e resta un gesto di un folle, e quindi inevitabile per definizione, che sia clandestino o milanese da sette generazioni, ha colpito per un particolare: la mancata segnalazione delle aggressioni. Che ha portato ad un ritardo nell’intervento delle forze dell’ordine, e quindi a ancora più tempo al picconatore per compiere la sua strage mattutina.
L’articolo ricorda come la follia di Kabobo sia stata segnalata alla polizia un’ora e mezza dopo l’inizio del killing spree.
Le prime tre vittime del folle non hanno infatti avvertito nessuno, se non i soccorsi medici:
Sono svenuto e quando ho ripreso conoscenza la strada era deserta», ha raccontato ieri dal citofono della sua abitazione, accanto alla moglie, dopo essere stato dimesso dall’ospedale. «Ho barcollato fino a casa, ho impiegato tempo». Aggiunge la donna: «Non abbiamo neppure realizzato di cosa si trattasse, per questo non abbiamo pensato di avvertire i carabinieri, ma solo l’ambulanza. In ospedale, quando sono arrivati altri feriti, abbiamo capito».
L’articolo cita anche gli altri aggrediti, dicendo cosa hanno (o meglio non hanno) fatto dopo l’aggressione, prima comunque di andare in ospedale, dove è partito poi l’allarme definitivo.
Il giornalista, cercando di capire il perché di questo comportamento intervista anche i soliti espertoni, sociologhi (ahahhaha) e psic* sempre pronti a commentare tutto, che sintetizzano più o meno così:
Facciamo parte di una società individualista con uno scarso senso della cosa pubblica, come conferma l’episodio di sabato mattina.
O con idiozie ancora peggiori:
La liquidità dei legami di oggi rende quasi impossibile identificarsi nel bene comune, nelle ragioni della collettività.
Ecco, queste sono tutte cazzate.
Il motivo principale, come viene riportato da diversi commentatori all’articolo (che non hanno perso tempo in facoltà inutili e quindi ragionano bene) è molto, molto più semplice.
In Italia non esiste un numero unico di emergenza.
Sì, perché l’Italia è il paese delle parrocchiette, degli orticelli e delle caste. Quindi ognuno deve avere un sistemino suo, un numerino suo a tre cifre, un suo corpo d’emergenza personale.
In altri paesi non esiste questo concetto. Negli Stati Uniti c’è solo il 911. Qualsiasi sia l’emergenza tu chiami loro e loro ti mandano quello che serve, ma tenendo traccia ditutto.
Sì perché in questi casi la velocità di diffusione e la condivisione dell’informazione è essenziale.
Se c’è un pazzo che prende a picconate tre persone e uno chiama il 118, uno il 113 e uno il 112, nessuno correlerà mai le cose. Ognuno penserà ad un caso isolato perché non è conoscenza degli altri tre casi.
Questo si riflette anche sulla popolazione e sulle azioni che i cittadini compiono. Perché se io ho tanti numeri per un’emergenza, quando sarò davvero in emergenza, magari non chiamerò proprio nessuno. Serve una strada da percorrere in momenti critici, non si deve avere scelta. Perché più c’è scelta più si aumenta l’entropia più si hanno comportamenti confusi e non adeguati ad una risposta rapida ed efficiente.
L’unificazione dei numeri di emergenza non è una cosa nuova ma, come tante cose italiche, è dimenticata, ma non da tutti.