Guardiamo le scuole, e chi le amministra…

Alla vigilia delle elezioni è girata sui vari social network la solita frasetta ad effetto, benpensante e radical chic, che ti raccoglie centinaia di mi piace e di condivisioni, questa:

Domenica e lunedì si vota nelle scuole pubbliche. Guardatevi intorno, guardate i soffitti, i bagni, le porte, l’intonaco. Guardate dove noi tutto il giorno viviamo e cerchiamo nei nostri limiti umani di costruire, formare e conservare una memoria. Guardate, e pensate che i vostri figli passano più tempo della loro vita dentro quelle aule che in casa vostra. E pensate che lì si forma un cittadino, la sua libertà e la sua vita.
Poi votate…
(Claudia Pepe, insegnante)

La frase in effetti è rimbalzata molto velocemente, riempiendosi di commenti come “ha ragione“, “è uno schifo”, “viva la scuola pubblica”, e altre tipiche banalità da Facebook e compari.

Quello che ho pensato di aggiungere è proprio che dobbiamo guardare le scuole sì, ma guardiamo anche chi le frequenta, chi ci lavora e soprattutto chi le amministra.

Sì perché ci sono entrato in una scuola per votare ieri, ma non ho visto solo quella, ne ho viste alcune accompagnando altre persone a votare. E ne ho viste ancora altre negli scorsi mesi frequentatole per diversi motivi.

E quello che ho visto è che le scuole non sono tutte uguali. Ce ne sono alcune che cascano letteralmente a pezzi, ma ce ne sono altre che hanno strutture ben manutenute, pulite e anche con laboratori informatici degni di questo nome.

Quindi evitiamo i soliti perbenismi che fanno tanto effetto, e cominciamo a ragionare su chi queste scuole le dirige e le gestisce.
Perché evidentemente non sono tutti uguali, non sono tutti bravi…

E mentre riflettevo su questa cosa, neanche a farlo apposta, ho visto questo bel servizio di Nadia Toffa delle Iene, proprio su come vengono gestite le scuole PUBBLICHE (e lo ripeto, perché sono quelle che tutti noi paghiamo con le tante tasse che ci chiede lo Stato). Non si può embeddare nel blog, ma vedetelo.

Parla del famigerato contributo volontario, richiesto in modo illegale e con pratiche allucinanti da presidi e dirigenti vari che palesemente non sanno fare il loro lavoro.
Del problema ne hanno parlato molti, da skuola.net (che ha ispirato il servizio delle Iene), fino alle associazioni di genitori, che spiegano molto chiaramente qual è la situazione.

Quello che mi ha colpito è l’arroganza di quei dirigenti, che non riescono a gestire la situazione e quindi attuano pratiche al limite del ricatto per avere due lire in più.
Che trattano male chi chiede chiarimenti “ma le pare che un dirigente commenti una circolare…” (sì, mi pare proprio visto che lo stipendio di quel dirigente lo paga proprio chi chiede chiarimenti).

Ma soprattutto che non sanno gestire i fondi che hanno in mano.
Lo so benissimo che la situazione è difficile, ma lo è per tutti. E in situazioni difficili vanno prese scelte adeguate e soprattutto vanno messe a dirigere persone competenti.

Non chi ricatta la gente che paga già le tasse per avere la scuola pubblica, non chi è arrivato lì senza quei meriti adeguati o senza la capacità dimostrata di gestire un budget complesso.

Non chi sta lì senza le palle per dire che se non ci sono soldi si chiude. E magari si accorpa e si ottimizza, come si fa in tutte le aziende che sono al limite del fallimento.

Hanno voluto i presidi manager? E allora facessero i manager! Ma scelti, giudicati e se necessario cacciati come i manager però.
Ma non chiedessero soldi, soprattutto con pratiche illegali, a chi di soldi ne tira già fuori troppi per avere servizi che cambiano a seconda di chi comanda, o peggio ancora a seconda dove si vive.

Perché le tasse le paghiamo tutti uguali, in tutte i quartieri di una città, come tutti uguali (purtroppo) sono gli stipendi di quei dirigenti.

Non voglio un apprendista, voglio un senior

Stavo ascoltando Radio24 stamattina e l’ottimo Simone Spetia ha intervistato alcuni capolista del M5S:

Devo dire che le persone intervistate erano abbastanza preparate, in particolare quello della Lombardia, e hanno retto bene alle domande del conduttore, ovviamente un po’ piccanti e sicuramente volte ad animare un po’ quello che di solito è la classica e noiosa tribuna politica.

Una cosa però mi ha colpito particolarmente, e in negativo.

L’avevo già sentita, ma stavolta è stata detta un po’ più chiaramente oltre al solito strillo nelle piazze.
Spetia ha chiesto al candidato della Sicilia, che è capolista quindi praticamente già eletto, come si vedrà come parlamentare della Repubblica. Lui ha risposto, molto candidamente:

Prendo esempio da quanto fatto dagli eletti dell’Assemblea Regionale Siciliana, ovvero che dovremo studiare molto. Perché il lavoro da fare è tanto e anche per presentare un disegno di legge si deve studiare tanto per capire come farlo.

Ecco, in questa frase c’è tutto il problema che vedo in questo genere di movimenti “dal basso”, e non composti da chi fa politica di carriera. Intendendo con carriera non chi vive nei fumosi corridoi di partito, ma chi ha iniziato l’impegno partendo magari dal suo piccolo comune, per poi arrivare in provincia e da lì sempre più in alto fino al parlamento.

Il punto, come ho scritto nel titolo, è che io voglio in parlamento dei senior, della gente che le cose già le sa fare e che le faccia (secondo il suo credo politico, s’intende) nel migliore e più veloce modo possibile. Non voglio uno che già in partenza mi dice che deve capire come funziona, che deve studiare, che deve essere affiancato per seguire i processi o i meccanismi.

Anche perché quanto tempo ci vuole per fare tutto questo? Sei mesi? Due anni? E nel frattempo questa persona, membro effettivo del parlamento, cosa fa?

La politica non è solo questione di pelo sullo stomaco, cosa che questi candidati magari hanno anche, ma proprio di comprensione dei meccanismi.

E lo dico, per essere più chiari possibile, perché se non si ha questa conoscenza possono succedere diverse cose.
Nel migliore dei casi si perderà una marea di tempo, nel peggiore si subiranno i tranelli, gli inganni e le strumentalizzazioni di chi in quel mondo ci vive da anni, e sa benissimo cosa fare  e cosa non fare…

Ma quale meritocrazia volete?

In Italia si parla continuamente di meritocrazia.

Di come è bella quella dei paesi anglosassoni, di come funziona tutto bene quando c’è, di come dovremmo attivarla anche qui da noi, di come tutti sarebbero contenti perché le loro capacità sarebbero davvero valorizzate.

Ma siamo (o meglio siete) veramente sicuri che sia così?

Vorrei sfatare un falso mito che viene portato avanti da tempo:

in Italia la meritocrazia c’è.

Bisogna soltanto mettersi d’accordo sul metro per misurare il merito. Sì perché è facile dire che vanno avanti quelli bravi. Ma bravi a fare cosa?
In Italia vanno avanti quelli bravi, su questo non c’è dubbio, ma vanno avanti quelli bravi ad avere conoscenze, parentele, agganci. Quelli bravi a vendere, a vendersi e a comprare.

Vanno avanti gli amici di amici.

Quindi mi dispiace, ma un regime meritocratico c’è eccome. Non avete i meriti di cui sopra? Allora vuol dire che siete fuori, che non riuscite a competere, che verrete scavalcati da chi riesce meglio di voi. Meritocrazia piena insomma.

Ora ovviamente dite che questo sistema non va bene. Ma lo dite perché, secondo questo sistema, voi siete fuori.

Parliamo allora di quello che c’è nel mondo anglosassone.
Per lo meno nella maggioranza di quel mondo, perché non è che lì le conoscenze e gli amici non servano, ma almeno servono in maniera minoritaria.

Ma siete sicuri di volere quel sistema? Lo conoscete bene o ne avete solo una visione mitologica?

Un’ottima descrizione di quel sistema ce la da il blog di italiansinfuga, con l’articolo La cruda realtà della meritocrazia.

Quindi cos’è questa cruda realtà? Cos’è questa brutalità di cui parla chi conosce molto bene quel sistema?
Vediamo qualche esempio:

Meritocrazia vuol dire che il 110 e lode può aiutarti a trovare un lavoro ma dal primo giorno di lavoro in poi non conta più nulla.

Meritocrazia vuol dire che il collega/concorrente cinese, pachistano o messicano ha le tue stesse possibilità.
Se lui o lei produce meglio e più in fretta di te, hai voglia a richiedere ‘meritocrazia‘!

Meritocrazia vuol dire che il tuo capo/capa sarà più giovane e intelligente di te. A me è successo spessissimo. Siete in grado di prendere ordini da chi ‘anagraficamente’ “merita” di meno?

Meritocrazia vuol dire che il titolo universitario ‘inutile’ (non richiesto dal mercato del lavoro) non vi garantisce il lavoro anzi.

Come si dice, qui casca l’asino.

Sì perché il buon Aldo svela, molto chiaramente e direttamente, il succo della meritocrazia anglosassone.
Cioè che va avanti di più, e guadagna di più chi produce di più. Non solo, ma va avanti anche quello che ha scelto il giusto percorso di studi, rispetto alle reali necessità del proprio paese.

Dico subito che anche io sono d’accordo con questo sistema, lo ammiro molto e sono profondamente convinto che possa realmente aiutare a portare avanti una nazione.

Ma la porta avanti perché vanno avanti quelli bravi, e questo significa, inevitabilmente, che restano indietro quelli incapaci.

Dobbiamo (torno al plurale) essere consci di questo, specialmente in un paese in cui domina l’omologazione e l’invidia.

Dobbiamo essere consci che questo sistema meritocratico aumenta sì la crescita e l’efficienza, ma lo fa aumentando la qualità del lavoro non la quantità.

Perché è vero, come dice il blog che

Certo che se sei brava e ti impegni allora la meritocrazia è un paradiso!

Però è anche vero che il numero di chi resta indietro, dei precari, di chi fa un lavoro generico pur avendo una specializzazione (inutile), probabilmente aumenterà.

E questo concetto deve essere molto, molto chiaro.

Napolitano, Monti e l’Unico Anello

Il Presidente della Repubblica evidentemente non conosce il Signore degli Anelli, altrimenti avrebbe capito che presto o tardi si sarebbe arrivati qui:

Monti scelta civica

Ora la mia è ovviamente una provocazione, non penso affatto che Napolitano possa aver mai letto nulla di Tolkien. Magari ha sentito parlare o ha visto il film, e questo non ha fatto altro che complicare le cose.

Sì perché i film di Peter Jackson sono apprezzabili sotto tanti punti di vista, ma a mio parere non fanno cogliere appieno uno dei concetti più semplici, e quindi più forti, della filosofia tolkeniana.

Il potere corrompe.

E più potere si possiede, più si viene corrotti e si diventa cattivi, avidi di quel potere. Si pensa solo a mantenerlo, difenderlo ed ampliarlo, quel potere.
Per dirla in termini molto semplici, si diventa così:

Alan Lee's Gollum
Alan Lee’s Gollum

Il Gollum di Lee riprende molto bene quello di Tolkien. Non è una creatura con cui provare empatia (o addirittura simpatia), come invece lo ha fatto passare Jackson. Gollum è un essere disgustoso, disumano, che ha totalmente rinnegato la sua natura di pacifico Hobbit pescatore per diventare un mostro corrotto dal potere dell’Unico Anello.

E non è un caso che proprio un Hobbit, le creature più buone e pacifiche del mondo Tolkeniano, siano scelte per mostrare i due aspetti, le due facce del bene e del male della medaglia del potere. Frodo e Bilbo (e Sam e Merry) contrapposti a Gollum.

Come dice giustamente questo saggio su Gandalf3: non esistono Anelli buoni. E la critica di Tolkien nei confronti della politica è netta, decisa e, purtroppo, senza speranza. Non può esserci potere senza corruzione, non può esserci governante che sia immune da quella corruzione e lavori per il bene. Chi ha potere lavora solo per il potere in sé, lavora per averne sempre di più. E più ne ha più ne diventa corrotto.

Se Napolitano avesse letto Tolkien avrebbe saputo che il potere di corruzione è tanto più alto quanto alto è il potere che si ha. E tanto è alto quel potere tanto potente è la trasformazione che applica a chi lo esercita.

Se Napolitano avesse letto Tolkien non avrebbe fatto una delle cose che mi ha sorpreso di più di questi ultimi mesi: sorprendersi del fatto che Monti volesse continuare quel potere.

Sì perché l’intera ascesa del Preside degli illuminati economisti bocconiani è stata caratterizzata da una fiducia quasi cieca, amplificata da atti abbastanza sorprendenti di forzatura del sistema da parte di uno dei Presidenti della Repubblica più attivi degli ultimi decenni. Alla faccia di Kossiga e delle sue picconate. E la fiducia del governo “tecnico” (come mi fa giustamente notare una mia amica non esistono governi tecnici), è stata ricambiata da una sostanziale decisione di andare alle urne, presa proprio da Monti e da un manipolo dei suoi ministri e collaboratori, che ha sostanzialmente bloccato la seconda parte della legislatura.

Sì perché presa la decisione di presentarsi non si potevano fare più le manovre “dure”, che poi sono proprio le uniche che un governo “tecnico” è chiamato a fare. Non si poteva chiudere la legislatura con un ricordo così forte, avrebbe comportato la perdita di qualunque percentuale minima di voto che ora Monti (e Casini e Fini) si aspettano.

Insomma il quadro è abbastanza chiaro, e conferma ancora una volta la morale di Tolkien. Che forse non c’è davvero speranza di aver fiducia in chi arriva al potere.

Chiudo con una curiosità, questo articolo del foglio parlava di Monti come del “Golem creato da Napolitano e dal PD, che gli si rivolta contro”. Non avevano tanto torto, avevano solo sbagliato mitologia, e qualche lettera.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata anche su Cronache Laiche.

La responsabilità (è) dello Stato

Torno a parlare dell’Ilva di Taranto, e di tutto quello che si è detto fatto attorno alla fabbrica.

Le Benevole
Le Benevole – dal photostream di Mafe.

Come accennato nell’altro post, proprio sull’Ilva è uscito un editoriale di Carlo De Benedetti sul Sole dal titolo Responsabilità dello Stato.

L’analisi che fa De Benedetti, che può piacere o non piacere ma la sua esperienza di tycoon ce l’ha, è molto interessante e piacevolmente sintetica ed efficiente. E sicuramente coglie il punto centrale della questione. Ovvero che tutta questa storia non è il susseguirsi casuale di eventi slegati tra loro che sono sfociati in una tragedia locale e nazionale.

È invece il frutto di quella schizofrenia dello Stato, che non è stato capace per anni di gestire una situazione complessa come lo sviluppo industriale del Paese, la definizione e l’applicazione delle regole, l’identificazione dei ruoli e dei responsabili. E che ora si sveglia di botto per arrivare con i bulldozer della magistratura a bloccare, chiudere, arrestare.

E a porre un vergognoso ricatto ai suoi cittadini, gettandoli in una lotta tra poveri che devono picchiarsi tra loro per scegliere se è meglio la fame oggi o un tumore tra qualche anno.

Dice De Benenetti

Che l’industria e la salute non siano spesso sorelle lo sappiamo da sempre. Almeno da quando le tessitrici di Manchester, oltre due secoli fa, cominciarono ad ammalarsi respirando le polveri di lana prodotte dalla lavorazione al telaio. Dopo di allora tutta la storia dell’industrializzazione è quella della ricerca di un compromesso tra salute e lavoro.

Esatto.

Anche se ancora gira qualche invasato che crede che dobbiamo tornare tutti alle belle campagne di una volta, magari a mangiarci il pancotto o la caciottina fatta in casa, è l’industria che ha creato la ricchezza dell’Italia, ed è sempre l’industria che ci permette di crescere, economicamente e socialmente.
Avere una politica industriale è la differenza tra una nazione sviluppata e una in via di sviluppo o peggio.

Quindi l’industria ci deve essere (ed è follia ritenere il contrario, anche se qualcuno ha il coraggio di sostenerlo), ma va opportunamente gestita, normata e controllata nel suo sviluppo e nel suo funzionamento. Quello che dice De Benedetti sembra quindi ovvio, ma purtroppo non è così.

Da quello che sta emergendo dalle cronache del caso Ilva di Taranto, invece, abbiamo avuto tutti la percezione di un ritorno al passato. A quando, agli albori dell’industrializzazione, il lavoro veniva prima anche di diritti essenziali, come quello alla salute.

Qui veniamo al primo punto fondamentale. Ovvero che le politiche, industriali ed occupazionali, sono del tutto assenti. Parliamo di Taranto, quindi sicuramente il mezzogiorno è la parte più colpita, ma il discorso è facilmente espandibile a tutta l’Italia. In questo campo, stiamo rimasti all’ottocento.

Scaricare tutte le colpe sui Riva può essere consolatorio, può aiutarci a lavare una coscienza collettiva, ma non individua né il responsabile vero né la soluzione.

È lo Stato che mette su un’enorme cokeria in riva al mare, senza alcun riparo dai venti che dal mare arrivano. Sono le amministrazioni locali che permettono la nascita di un enorme quartiere proprio a ridosso di quelle strutture. Sono i poteri pubblici, tutti, a chiudere gli occhi davanti all’obiettivo di creare lavoro ad ogni costo in quella parte di Sud.

Sì, certo. Possiamo gioire nel vedere i Riva al gabbio, possiamo anche crocifiggerli sulla pubblica piazza. Anzi, possiamo farli crocifiggere. Ma da chi? Dallo Stato ovviamente.

Quello Stato che gli ha detto qualche anno fa “certo come no, mettetela a Taranto!“, quello Stato che ha detto ai propri cittadinicerto, come no, costruite pure lì accanto! ci andate a lavorare, meglio essere più vicini possibile e fare meno strada no?”

Quello Stato che ha accettato i soldi dei Riva, i “capitani d’industria coraggiosi”, quando servivano per il vergognoso “salvataggio” di Alitalia. Fregandosene del fatto che stavano facendo porcherie di tutti i tipi, anzi essendone complice ben consapevole che volevano solo cercare protezione. Convincere magari qualcuno a chiudere un occhio.

Deve essere lo Stato a pagare la bonifica del sito di Taranto. Chi ha creato quel mostro deve pagare per la sua rimozione.

Esatto. È lo Stato il primo responsabile di questo disastro. Lo stato schizofrenico che prima permette tutto e poi bombarda per ammazzare tutto.
Pagasse lo Stato per sistemare la situazione e risolvere l’allucinante ricatto. Ma non con i nostri soldi, ma con i suoi. Con i suoi asset e con le sue risorse, magari proprio quelle che sono uscite dalle tasche dei Riva.

Sento spesso parlare di ricette per la crescita e per il rilancio della manifattura: ecco una buona occasione. Invece di parlare a casaccio di politiche industriali, una buona politica potrebbe e dovrebbe partire da qui: dalla bonifica delle aree industriali dismesse, attraverso programmi misti tra pubblico e privato, aprendo la strada a possibili investitori italiani e stranieri.

Lo Stato non vuole risolvere la situazione, quindi che fa? Chiede sforzi assurdi ai privati. Quelli stessi privati a cui prima permetteva tutto però.

Bene, De Benedetti prende questa situazione di stallo e la rigira come un’ottima opportunità di crescita. Si facciano delle politiche industriali di sviluppo e si attivino programmi, aperti agli investitori esteri, per favorire la bonifica di queste aree problematiche. Ovviamente offrendo vantaggi fiscali e burocratici ulteriori.

Ma pianificando e controllando, ovviamente. Il potenziale c’era ed è rimasto, si sono solo complicate un po’ le cose. Ma il messaggio che da De Benedetti è positivo. Si può trasformare la crisi in opportunità.

Ma va presa una decisione.

Dalla vicenda dell’Ilva c’è dunque una lezione più ampia da trarre. Ridurlo a un caso di criminalità individuale non aiuta a capire. Quella dell’acciaieria di Taranto, e delle morti che ha portato, è storia d’Italia. Conoscerla, e soprattutto capirla, può aiutarci a costruire per il futuro.

La chiosa finale è positivista, anche se non la trovo condivisibile. Per gran parte dei media e della popolazione è solo un caso di criminalità industriale.
E fare decreti di “salvataggio”, che peraltro vanno contro quanto dicono altri organi dello Stato stesso, alimenta solo quella schizofrenia incomprensibile. Figlia del pensare solo all’immediato tornaconto di politiche personali, e mai al bene della nazione.

Altro che costruire il futuro, qua si continua ad affossare il presente.