Il papa e Internet

No, non ci sono indicazioni sull’uso della rete da parte di papa Francesco, ma un interessante dato che riguarda la sua elezione.

Akamai è forse l’azienda più grande al mondo nel campo del content delivery. Il loro lavoro in pratica consiste nel distribuire contenuti digitali, usando Internet, in tutto il mondo (tanto per fare un esempio, quando scaricate un app per il vostro iPhone, state utilizzando i sistemi Akamai).

Questo significa che, oltre a controllare una parte enorme del traffico Internet mondiale, dispongono di dati e analisi sull’andamento dei collegamenti.

Trimestralmente Akamai pubblica il suo State of the Internet Report, in cui descrive l’andamento delle connessioni di rete, la velocità media delle connessioni nei vari paesi, l’andamento di attacchi alle infrastrutture di rete, l’uso dei dispositivi di connessione mobili e altre cose.

È uscito da poco il report sul Q1 del 2013 (qui trovate il PDF dell’executive summary, e qui potete registrarvi per scaricarlo completo), e la notizia più interessante riguarda proprio il papa.

Akamai e il papa
Fonte Akamai State of the Internet Q1-2013Cliccate per ingrandire

Akamai ha notato che il 13 marzo scorso, data della fumata bianca per l’elezione di papa Bergoglio, il traffico sulle sue piattaforme è quadruplicato in una sola ora: da quando il fumo è uscito dalla Cappella Sistina a quando sono state pronunciate le famose Habemus papam

Il totale complessivo del traffico che la notizia ha fatto sui vari quotidiani online, su Twitter, su Facebook, sullo streaming in diretta da piazza San Pietro ha toccato l’incredibile punta di 2,1 Terabit per secondo. Se pensiamo che, come dice Akamai, l’intera piattaforma ha comunque trattato circa 10 Tbps di altro traffico (senza problemi), allora vuol dire che un sesto di tutto il traffico Internet  parlava dell’elezione del papa.

Il dato è davvero impressionante, ed è molto indicativo di come un singolo evento può generare uno scambio di connessioni altissimo.

Akamai lo chiama appunto event-driven flash crowd, ovvero un concentrarsi di persone (ovviamente da ogni parte del mondo, visto che su Internet la distanza fisica ha quasi nessun senso) per un singolo evento, in un tempo brevissimo.

L’evento in questo caso era davvero eccezionale, non abbiamo tutti giorni un papa dimissionario ed un’elezione così altamente coperta dai media, ma in ogni caso pone interessanti domande sul futuro della scalabilità dei servizi esposti e di cosa ci si deve aspettare da un uso di Internet sempre in aumento e sempre più legato a momenti ed eventi specifici.

Perché si sa, i negri…

Sono le due di notte a Boston, è una fredda, buia e cupa notte di gennaio 1995.

Quattro uomini, tutti neri e con abiti scuri, escono dal parcheggio di un fastfood a bordo della loro Lexus dorata. Alla radio risuonano le note di Streets of Philadelphia del Boss, e alle loro spalle lasciano un cadavere ucciso a colpi di pistola.

Durante la fuga, la radio della polizia trasmette erroneamente la notizia che il morto è un poliziotto. Questo trasforma un normale inseguimento a dei criminali di una gang di Boston in una caccia all’uomo, e alla vendetta, che coinvolge tutte le volanti di tutti i distretti della città.

La Lexus si ferma in un vicolo cieco, mentre attorno il suono delle sirene della polizia si fa sempre più vicino. I quattro occupanti escono, scappando via in direzioni diverse.

La prima auto della polizia ad arrivare è un’auto civetta, guidata da un poliziotto in borghese Michael Cox.
Cox è un agente esperto della squadra antigang, anche lui è cresciuto nel ghetto, anche lui è nero e quella sera ha indosso una felpa e jeans scuri.

Cox si getta all’inseguimento di uno dei sospettati, “Smut” Brown. Lo bracca fino ad una grata metallica dietro una delle case del quartiere, ma Brown riesce a saltare dall’altra parte. Cox allora si prepara a scalare anche lui la grata, quando viene colpito alla testa da un oggetto pesante, forse una torcia, più probabilmente un manganello.

Un altro agente della polizia, in uniforme, era arrivato sulla scena e aveva scambiato Cox per uno dei sospettati. In poco tempo Cox, ormai a terra quasi svenuto, viene circondato da altri poliziotti che iniziano a pestarlo. Ad un tratto qualcuno urla: Fermatevi, è un poliziotto! È un poliziotto!“.

Tutti scappano, lasciando Cox svenuto, con un trauma cranico, ferite ovunque e un danno al fegato.

Contemporaneamente arriva sulla scena Kenny Conley, bianco, atletico. Conley vede Brown scavalcare la grata, lo insegue e lo arresta dopo qualche isolato.

Conley fu interrogato sull’accaduto, ma disse di non aver visto l’aggressione a Cox. Fu incriminato per questo (ma prosciolto dopo diversi anni e processi e implicazioni psicologiche di cui parlerò un’altra volta), ma in ogni caso non fu mai possibile individuare i poliziotti coinvolti nel pestaggio.

Perché si sa, se un negro sta tentando di scalare una grata è sicuramente colpevole, e se ha sparato ad un poliziotto va ammazzato di botte.

Sono circa le due di notte a Perugia è una fredda, buia e cupa notte di novembre 2007.

Un ragazzo, nero, è in bagno a casa di un’amica perché non ha forti dolori di pancia. Per passare il tempo ha messo le cuffie (enormi, come previsto dalla moda) del suo iPod. Forse sta sentendo Ayo Technology, di 50 Cent e Justin Timberlake.

Ad un tratto sente degli strani rumori provenire dalle altre stanze della casa. Rumori seguiti da un urlo, l’urlo della sua amica.

Il ragazzo, che si chiama Rudy Guede, si toglie le cuffie, si tira su i pantaloni ed esce dal bagno.

Andando nella camera dell’amica vede altri due ragazzi, un uomo ed una donna. Entrambi bianchi, entrambi WASP.

L’uomo lo guarda e dice:”Negro trovato, negro accusato.”
I due se ne vanno e lasciano Guede da solo nella casa, insieme alla sua amica. Che si chiamava Meredith Kercher, e che ora è morta, sgozzata, nella sua camera.

Guede scappa, ma viene in seguito arrestato (dopo l’arresto e la successiva scarcerazione di un altro negro accusato ingiustamente, Patrick Lumumba), accusato e condannato per concorso nell’omicidio di Meredith. Durante il processo testimonierà che a dirgli quella frase fu Raffaele Sollecito. Uno dei due bianchi. La sua versione non è stata provata giuridicamente, ma la frase di Sollecito era ed è assolutamente verosimile. Anche in Italia, nel 2007.

Perché si sa, se un negro viene trovato sulla scena di un crimine sarà sicuramente colpa sua.

Sono circa le sette di sera a Sanford è una fredda, buia e cupa sera di febbraio 2012.

Un ragazzo di 17 anni, nero, è all’interno di Twin Lakes, un consorzio urbano nella città della Florida. Il consorzio è un’area privata protetta da grate.

Il ragazzo sta tornando da un minimarket 7-eleven, si chiama Trayvon Martin ed è a casa della fidanzata del padre, che abita a Twin Lakes.

Sulla stessa strada passa l’auto di un uomo, ispanico, di nome George Zimmerman. Alla radio danno Set Fire to the Rain di Adele.
Zimmerman, che  è uno dei responsabili della ronde di abitanti nel consorzio di Twin Lakes, vede Martin. Forse lo chiama, ma il ragazzo si spaventa, e fugge.

Zimmerman non lo conosce, pensa che sia un ladro, lo insegue e gli spara. Uccidendolo.

Qualche giorno fa, dopo un lungo e faticoso processo, George Zimmerman è stato assolto per l’omicidio di Trayvon Martin, in nome della legge statunitense Stand-your-ground, che giustifica l’utilizzo della forza in caso un cittadino si senta in grave ed incombente pericolo.

Il verdetto ha portato grande emozione e rabbia nell’opinione pubblica americana.

Talmente tanto che il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, un nero che ha sempre minimizzato le implicazioni razziali, e ha sempre cercato di riportare il discorso alla persona e non alla sua etnia, ha detto in un una conferenza stampa che: “35 anni fa, Trayvon Martin avrei potuto essere io.”

E ha aggiunto che, almeno fino a quando non è diventato senatore, è stato uno dei tanti afroamericani che abbiano sentito gli sportelli bloccarsi, mentre si avvicinano a un’auto.

Perché si sa, se un negro gira attorno a casa vostra è per rapinarvi o per uccidervi.
E va ucciso prima lui.

Italia e USA non sono diverse, sono fin troppo uguali in questa storia.

E se nella più grande democrazia del mondo ancora oggi un ragazzo può morire perché nero, o un poliziotto può essere ammazzato di botte dai suoi colleghi perché nero. In Italia le cose non cambiano di molto, anzi come al solito siamo sempre un po’ indietro  e messi peggio rispetto agli USA.

In Italia un ministro nero (e siamo onesti, messo lì perché nero), viene aggredito con toni apertamente razzisti da uno dei più alti esponenti dello Stato. E ancora più grave sono le ridicole giustificazioni, come se fosse lo stesso prendere in giro uno perché è basso, grasso o zoppo.

Perché si sa, i negri sono come le scimmie delle foreste da cui provengono.

E non servono leggi speciali ad aggravare un reato rispetto ad un altro, leggi che anzi continuano ad umiliare le minoranze (puttane, negri, nerd, froci, ciccioni, chi più ne ha più ne metta).

Servono cambiamenti culturali profondi e applicare bene le regole che già ci sono.

E non pensate che serva aspettare che arrivino le seconde e terze generazioni di immigrati.

Gli Stati Uniti saranno alla ventesima, ma i negri sono sempre colpevoli e Bruce deve sempre cantare questa maledetta e bellissima canzone.

http://www.youtube.com/watch?v=iyNLVvfdFg8

La capitale del Cosacchistan

Oggi compare su tutti i giornali, ma la prima volta che ho sentito parlare di Astana, la capitale del Kazakistan è stato l’anno scorso.

Astana - Kazakistan
Astana – Kazakistan, da Wikipedia

Ero seduto su una panca del terminal E dell’aeroporto Šeremet’evo di Mosca (anche questo su tutti i giornali in questi giorni), nel corso di otto ore di layover in attesa che partisse il volo Mosca-Avana. Dopo aver fatto già la tratta Roma-Mosca.

Piccolo inciso: Aeroflot è sicuramente una delle migliori compagnie aeree del mondo, ha prezzi molto bassi e aeromobili (per le tratte lunghe) nuovi di pacca. Va molto bene quindi per i voli ad Est, infatti per il Giappone è praticamente l’unica alternativa possibile, meno bene se dovete andare a ovest. In ogni caso la rotta Roma-Mosca-Avana era di gran lunga la più economica di tutte (qualche centinaio di euro), solo che prevedeva non solo un’anda e rianda, ma anche una sosta a Mosca piuttosto lunga.

In ogni caso la zona di passaggio tra i terminal F ed E è quella più adatta per cercare di dormire. Infatti era pieno di gente sulle panche e per terra, compreso un nutrito numero di cinesi incredibilmente organizzati, che con coperte e cuscini avevano praticamente trasformato una parte di terminal in bed&breakfast.

In una foto, così

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Il layover è pesante…

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C’è da dire che l’aeroporto di Mosca, essendo un crocevia di popoli e nazioni di letteralmente mezzo mondo, è frequentato da gente di tutti i tipi. E quando dico tutti, intendo anche cose che non vi aspettate di vedere in un aeroporto ultramoderno, tipo la famiglia armena col mono-sopracciglio e le valigie fatte con cartoni legati con lo spago.

Il gate davanti alla panca era pieno di persone altrettanto singolari, etnia asiatica ma non completamente a mandorla, vestiti fin troppo casual e pochi bagagli.  L’imbarco iniziò (con mia gioia visto che un paio di pupetti erano particolarmente agitati) mentre  display sul gate diceva Almaty.

Uno dei punti di forza dell’aeroporto di Mosca è che offre WiFi gratuito e illimitato ovunque. Non potendo quindi continuare a riposare ho cercato dove stesse Almaty, scoprendo che era appunto la vecchia capitale del Kazakistan, sostituita di recente proprio da Astana.

Tra l’altro il nome Astana era sempre sul display, perché la compagnia aerea kazaka si chiama proprio Air Astana.

Tutto questo eccesso di nazionalismo, unito ad una evidente situazione non troppo felice dei passeggeri, già puzzava.

Un giro sui vari articoli di Wikipedia ha infatti confermato che anche se dopo l’indipendenza dall’URSS formalmente il Kazakistan è una Repubblica, dove però incidentalmente il presidente è sempre lo stesso. E vince con il 95,5% dei voti.

Le foto della capitale (il cui nome Astana  è stato scelto perché suonasse bene nella gran parte delle lingue mondiali), è poi un chiaro esempio di architettura di regime. Praticamente potete mettere come didascalia Pyongyang e avrete lo stesso effetto.

Le differenze con la Corea del Nord sono però un po’ più evidenti quando si va a leggere, nella voce di Wikipedia sul Kazakistan, il paragrafo Risorse. Lì viene indicato che il paese (che ricordiamo è il nono al mondo per grandezza) possiede “circa il 60% delle risorse minerarie dell’ex Unione Sovietica“.

Ecco perché, leggendo della vicenda italiana della signora Shalabayeva (e figlia), il quadro della situazione era da subito molto, molto chiaro.

Altro che dubbi degli editorialisti e le ipocrisie dei politici.

Chi era Douglas Engelbart

La notizia della morte di Douglas Engelbart è passata un po’ troppo in sordina, anche e soprattutto sui siti di tecnologia e sui blog che di solito ospitano questo genere di informazioni.

È successo perché Engelbart non era quel tipo di persone che amano stare davanti all’obbiettivo, in fondo è sempre stato uno dei più grandi ingegneri che hanno creato il sistema complesso sul quale state leggendo questo articolo.

Anche la definizione visionario, in fondo, sembra più un etichetta postuma piuttosto che una reale descrizione della sua attività.

Engelbart è ricordato nei frettolosi coccodrilli solo per il suo contributo all’invenzione del mouse, ma le sua idee sull’interoperabilità dei sistemi erano così dettagliate e puntuali, che sono tutt’oggi la base su cui fonda l’idea stessa di Internet.

Kottke, nell’articolo che lo ricorda, pubblica uno spettacolare filmato di una presentazione fatta da Engelbart quando lavorava allo Stanford Research Institute, uno dei gruppi di lavoro sponsorizzati dall’agenzia DARPA.

La presentazione è stata, giustamente, definita la madre di tutte le demo.
Nel filmato Engelbart descrive, con una chiarezza e competenza tipica di chi davvero sa fare il proprio lavoro, cose come: il mouse, la videoconferenza, l’ipertesto, la videoscrittura, il link dinamico a file e oggetti. Addirittura un editor collaborativo in tempo reale.

Sono tutte cose che noi oggi diamo (un po’ troppo) per scontato, ma che nel 1968 erano considerate praticamente fantascienza dalla maggior parte della popolazione. Tanto per fare un esempio, nel 1968 in Italia andava ancora in onda in televisione Non è mai troppo tardi, con il maestro Manzi.

Ecco, in quello stesso periodo Engelbart, come ricordato in un bell’articolo di The Atlantic, sviluppa concetti oltre ad un semplice strumento di puntamento.

Grazie anche al lavoro fatto da altri scienziati e tecnologi (come Vannevar Bush), Engelbart ha lavorato per creare

an integrative and comprehensive framework that ties together the technological and social aspects of personal computing technology.

Ha posto le basi per la creazione di un nuovo tipo di persona che, sfruttando il legame uomo-tecnologia tramite una interfaccia adeguata tra utente e sistema, possa disporre di strumenti più evoluti rispetto ai propri. E con questi possa affrontare i problemi di una società che diventa ogni giorno più complessa.

In quei pochi concetti c’è tracciata la strada verso cui stiamo andando in questi anni, tra internet of thingsrealtà aumentata, tra web collaborativo e smart cities.

Come chiude giustamente The Atlantic:

The Internet is still young, the web younger still. We do not know what form they will take.

Purtroppo, se n’è andato qualcosa di più del semplice inventore del mouse.

Il trauma della curva sud

Non parlo volentieri di calcio.
Sia perché se ne parla fin troppo, sia perché anche essendo tifoso della Roma sono passato da abbonato in curva a abbonato a Sky a abbonato a nulla.
Disincantato e stanco di troppo casino, troppe strumentalizzazioni, troppo business.

Però questa volta penso ne valga la pena, parlare di calcio.

L’arrivo di Rudi Garcia sulla panchina della Roma è stato visto positivamente, in particolare per la sua fama di duro.

Questa fama è nata durante le sue esperienze precedenti (o meglio i suoi tentativi di esperienze).

In particolare ha la fama di uno che non guarda in faccia a nessuno e che, chiamato a guidare prima il Camerun poi il Togo, non ci mise molto a capire che il primo problema di squadre come quelle erano le primedonne.
Tentò subito quindi di silurare Eto’o  e Adebayor, dimostrando sicuramente molta lucidità e molto coraggio.

Non ci riuscì, naturalmente, e venne silurato lui. Lasciando quelle due squadre nel nulla che erano e che sono, e i due campioni eroi della patria.

Ora, l’idea di rimuovere i sepolcri imbiancati dalla squadra, sia per dare spazio a chi giustamente se lo merita, sia ad evitare che una stella così luminosa possa mettere in ombra tutti gli altri è senza dubbio molto coraggiosa, come detto, ma soprattutto lucida.

E proprio la lucidità serve a chi deve prendere in mano le redini della Roma, visto che una delle cause principali del blocco della squadra e del fallimento degli ultimi anni è appunto l’inamovibilità delle primedonne. Ovviamente parliamo di Totti e De Rossi.

La cosa paradossale è che la situazione a Roma è chiara a tutti. Sia tifosi che giornalisti che gli stessi addetti ai lavori sanno che il problema principale è quello, quindi non vedevano l’ora di accogliere un duro come allenatore.

Però… però.

Tutti contenti dell’arrivo di Garcia, tutti festeggianti, però a leggere i commenti sui social network, sui siti sportivi, alle radio, al bar e per strada il sentimento popolare è sempre quello, sempre lo stesso da anni, sempre uguale.

Sempre così:

Totti non si discute si ama

De Rossi non si tocca

Alla fine tutti sanno qual è il problema, ma tutti allo stesso tempo non vogliono che sia rimosso.

Ma perché? Qual è il motivo che alimenta questo pensiero collettivo?

Ho sempre avvertito la consapevolezza che questo modo di pensare ci sia sempre stato nei trenta e passa anni che seguo la Roma.

Sia nei tempi più bui che nei periodi di successo l’attaccamento morboso verso i giocatori più rappresentativi, verso i figli di Roma più importanti, verso “i miei gioielli” di gracchiana memoria, c’è sempre stato.

Non ho mai posto però particolare attenzione a questo comportamento fino a quando, qualche giorno fa, ho risentito in radio questa canzone, e ho capito.

Questo mondo coglione piange il campione quando non serve più.
Ci vorrebbe attenzione verso l’errore.
Oggi saresti qui.
Se ci fosse più amore per il campione, oggi saresti qui.

Questa canzone di Venditti, per chi non è romanista e per chi non conosce Venditti, è dedicata ad Agostino Di Bartolomei.

Ago
Agostino Di Bartolomei nella maglia Barilla, foto di Agocapitano.

Di Bartolomei, Ago per la curva, è stato forse il più grande capitano che la Roma abbia mai avuto.

Romano di Tor Marancia quindi figlio di quella Roma popolare del dopoguerra, cresce nelle giovanili della Roma fino ad arrivare a guidare, con la maglia numero 10, la squadra in Serie A nel periodo più importante della fine del secolo scorso. Dalle tre Coppe Italia, all’impresa dello Scudetto dell’83 che ha stravolto la città e riportato la Roma tra le grandi (e che, tra l’altro, è il motivo per cui sono tifoso romanista), fino al punto più basso, alla delusione più grande della storia della squadra: la finale di Coppa Campioni del 1984.

In sintesi Di Bartolomei ha guidato la squadra dal suo punto più alto (il primo scudetto del dopoguerra) a quello più basso possibile (una finale europea persa in casa).

Questo ha senza dubbio instaurato un legame incredibile con la tifoseria. Che vedeva in Ago proprio la guida di cui aveva bisogno, un romano, romanista, capitano della Roma sia nel bene che nel male. Sia nella rinascita che nella sconfitta più dura.

L’eroe perfetto.

Ma gli eroi a volte hanno una storia tragica, e quella di Di Bartolomei lo fu.

Dopo la sconfitta fu ceduto, giusto il tempo di vincere la Coppa Italia e andò via.

Venduto ad altre squadre con la sua curva che lo salutava così:

Striscione Di Bartolomei

Di Bartolomei continuò a giocare sempre bene, fino a portare la Salernitana in serie B dopo tanti anni. Ma ormai era stato relegato ai margini del mondo del calcio.

Tentò di fare l’opinionista, ma più che altro lavorò per trovare altri talenti, fondando una scuola calcio e scrivendo un manuale per allenare i giovani.

Ma era lontano dalla sua Roma e dalla sua curva, troppo lontano.

Il 30 maggio del 1994, proprio dieci anni dopo la sconfitta più grande, sua e di tutti i tifosi romanisti, Agostino Di Bartolomei si sveglia, prende la sua Smith&Wesson, e si spara al cuore.

Fu uno shock.

Ricordo vagamente i festeggiamenti dello scudetto, ero piccolo allora, ma ricordo molto bene la notizia delle morte di Ago. Ricordo la gente che piangeva, il senso di delusione collettiva, il lutto.

Non era solo lutto per la perdita di un “figlio” però.

La morte di Di Bartolomei fu per la coscienza collettiva della tifoseria romanista un trauma enorme. Fondamentalmente perché si resero conto di averlo abbandonato.

Si resero conto che la discesa verso la depressione, il senso di vuoto e la scelta di uccidersi cominciò proprio quando Ago fu costretto a lasciare Roma, la sua città e la sua squadra.

Mi sento chiuso in un buco.

Scrisse così Di Bartolomei nel suo biglietto di addio. Perso in un limbo di vuoto e inutilità e lontano dalla cosa che aveva amato di più.

Lontano dalla gente che aveva amato di più lui.

La morte di Ago è il trauma che ancora oggi spinge i tifosi della Roma a comportarsi così. A comprendere che per rinnovarsi e rinnovare è necessario mettere qualcuno in panchina, e far emergere menti e forze giovani, nuove. Idee nuove.

Poi però arriva il canto di Venditti, che è sempre stato grande interprete del sentimento popolare della curva e dei tifosi romanisti, arriva quella frase che riporta un orribile pensiero

Se ci fosse più amore per il campione, oggi saresti qui.

Se ci fosse stata attenzione per l’errore, Ago oggi sarebbe qui. Se non fosse stato dimenticato e chiuso in un buco, oggi Ago sarebbe qui.
Questo quindi non deve mai più succedere. Nessuno dei figli di Roma deve essere più tradito.

Sappiamo che sono il problema, ma Totti e De Rossi non si toccano.

Dagli errori si deve imparare sì, ma dai traumi di deve guarire. I tempi sono cambiati e ci sono tanti modi per non cadere nel tradimento e perdono.

La pistola dalla mano è stata cancellata tanto tempo fa, ora non serve più guardare al passato.

E io, da tifoso disincantato e stanco, spero che la guarigione arrivi il prima possibile.