Indignarsi e protestare di questi tempi è facilissimo, basta un mi piace, un retweet o un più uno (ok, quest’ultimo è meno probabile).

Capita quindi sempre più spesso che, se all’alba di un fatto grave, tragico, o comunque che colpisce le coscienze e le vite di molti di noi, ci sia sempre chi prova sgomento e dolore e chi si indigna e protesta. Con un clic.

Questo è successo anche nelle ore e nei giorni successivi agli attacchi a Parigi, quando comprensibilmente gran parte delle persone rilanciavano notizie, foto, commenti e pensieri. Non parlo di inutili cambi di foto del profilo (che sono un po’ l’altra faccia di questa stessa medaglia), quanto del riportare informazioni, scambiare commenti, trovarsi vicini nel fermarsi a riflettere su qualcosa che per un po’ ha portato le nostre menti in posti in cui non volevamo andare.

Parlo di quelli che dicono, puntualmente:

E allora ieri sono morti in duemila in Nigeria, tremila in Uganda, un milione a Timor Est. Perché non ti sei addolorato allora? Eh? Perché?

Luca Sofri ha scritto un bel post in cui parla di questo fenomeno.

Non degli indignati da tastiera in generale, ma proprio di questo sottoinsieme di “antagonisti del dolore”, di “benaltristi dei drammi mondiali”.

E lo dice in modo semplice e lineare come pochi: perché non era il nostro mondo. È inutile giraci intorno ed è inutile fare gli ipocriti su un tema così serio. È utile invece affrontare la verità delle cose: ci importa (ed è giusto che sia così) solo di quello che conosciamo.

Dice Sofri:

Ma più di frequente la ragione per cui abbiamo reazioni che ad alcuni suonano come “due pesi e due misure”, è secondo me comprensibile e legittima, e dovremmo serenamente rivendicarla, invece che sentircene in colpa: soffriamo di più per le persone che ci sono più vicine.

Io vivo a Roma, e a Roma ogni giorno muore un sacco di gente.

Mi importa qualcosa di loro? No.

Mi importa se muore una persona a me cara, o con cui comunque ho avuto un buon rapporto? Sì, in proporzione alla vicinanza con la mia vita mi può importare eccome.

Mi importa ancora di più, anche se non la conoscevo, se quella persona muore in una circostanza che mi potrebbe colpire nella mia vita quotidiana. Se viene investita mentre attraversa le strisce, se c’è un incidente sulla metro, se viene ammazzata durante una rapina andata male.

A me, come ad ognuno di noi, importa del proprio mondo, dei luoghi che frequenta, che conosce, che vive e che ha vissuto.

Il “nostro mondo” è quello, che come dice giustamente Sofri, può essere più ampio o più ristretto a seconda delle proprie esperienze di vita, dei propri viaggi o dei propri interessi. Anzi, dovrebbe essere il più ampio possibile.

Ma è prima di tutto stupido e poi ipocrita (soprattutto se fatto dietro una tastiera) fare paragoni.

Le storie sono diverse, ognuna drammatica a modo suo, e nessuna merita di diventare un argomento di paragone con qualcos’altro.

Sono stato molto, molto male nel 2011 quando ci fu il Grande Terremoto del Tōhoku, perché io lì ci ero stato. Avevo camminato sulle spiagge che vedevo ora spazzate via dallo tsunami e avevo interagito con un gruppo di bambini timidi su quella strada che ora non c’era più.

E sapevo che forse non c’erano più nemmeno quei bambini.

Non a tutti importava però, seppure il Giappone sia un comunque un pezzo del “nostro” mondo occidentale. Non dico che sia giusto o sbagliato, solo che per la maggior parte delle persone è così.

E comprendo questo comportamento, a maggior ragione se viene da persone che hanno altri mondi magari sovrapponibili al mio. Che sono state in Nigeria a vedere come vive la popolazione massacrata da fame e terrorismo, o a Gaza tra bombe e mancanza di tutto e gente che cerca chi sarà il prossimo a farsi saltare in aria. Purtroppo non hanno lo stesso mondo, e non tutti hanno gli stessi luoghi di questo mondo.

Forse è questo quello che ci dovrebbe far più riflettere, e che forse ci dovrebbe aiutare a capire che il mondo è uno. Noi siamo diversi ma ci stiamo tutti sopra insieme.

3 pensieri su “I nostri luoghi del mondo

  1. A me, gli attentati di Parigi hanno fatto tornare alla mente gli atti terroristici che ci sono stati in Europa negli anni settanta, quando ero ragazza e viaggiavo spesso, per motivi di lavoro, sia in Italia che all’estero e sono stata spettatrice di quelle assurdità
    Speravo che quei “momenti” non tornassero più, purtroppo non è così.
    Purtroppo, anche la retorica e l’ipocrisia fanno parte della sovrabbondanza della comunicazione attuale. In rete c’è di tutto e molti scrivono senza rileggere, molti parlano senza riflettere: basta esserci.
    Il tuo post è molto bello perché affronta i vari lati dell’argomento e fa pensare.
    Buona giornata.

    1. Grazie Neda.

      Purtroppo hai ragione, c’è una sovrabbondanza di comunicazione e (incredibile a credersi in un mondo globalizzato) una riduzione delle esperienze vissute e dei luoghi visitati.
      E aiuterebbe molto.

      1. La ridondanza nelle comunicazioni in questo mondo globalizzato, ma stranamente chiuso e introverso, porta a credere che ci siano più informazioni, il che può anche essere vero, ma io ho la sensazione che ci sia troppa superficialità, la mancanza del desiderio di approfondire gli argomenti e una buona dose di ignoranza.
        Questo è il tempo in cui tutti vogliono “andare”, ma il visitare luoghi presuppone tempo a disposizione, perché i luoghi appartengono alle popolazioni, ai loro usi e costumi, alla loro storia e non è che otto giorni in una città permettano di “sapere”, di essere diventati degli etnologi.
        Si corre, si va e si torna con un carico di foto che ricordano il viaggio, ma si è rimasti sopra la superficie.
        Questo è il mondo delle immagini, dei social network, dei like, dei tweet….ci stiamo abituando a tutto, mangiamo mentre la TV scarica immagini e parole che dovrebbero chiuderci lo stomaco, i bambini giocano con le play-station a giochi che anestetizzano il loro cervello, i grandi con i gratta e vinci e le macchinette mangiasoldi sperando nella ricchezza.
        Siamo ancora in grado di commuoverci davvero o solo se ne siamo personalmente toccati, come accennavi tu, nel tuo post?
        Panem et circenses, non ne abbiamo fatta molto di strada in questi ultimi duemila anni riguardo alla morale e all’etica, purtroppo.

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